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Alimentazione
Francesca Morelli
pubblicato il 14-07-2014

A tavola chi ci comanda non è il gusto, ma i nostri geni



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Ve ne sarebbero 17 a condizionare le nostre preferenze alimentari. La scoperta, fatta da ricercatori italiani, potrà rivoluzionare la nostra alimentazione

A tavola chi ci comanda non è il gusto, ma i nostri geni

Sei erbivoro, carnivoro o onnivoro? Chiedilo ai tuoi geni. A orientare verso un cibo e il rifiuto di un altro, sarebbero anche (e forse soprattutto) questi ultimi affiancandosi al piacere determinato da olfatto e papille gustative, fino ad oggi i soli ad essere ‘culinariamente’ riconosciuti.

La scoperta recente, e tutta italiana, è merito di un gruppo di ricercatori dell’Istituto Burlo Garofolo e dell’Università di Trieste, presentata in occasione della Conferenza dell’European Society of Human Genetics.

 

LO STUDIO

Nell’elica del Dna, oltre alla nostra storia, è iscritta anche la predilezione a un determinato cibo o almeno ad alcuni di essi. A condurre e condizionare le nostre scelte a tavola sarebbero 17 geni (ma non è escluso che ve ne possano essere altri) capaci di dire, in maniera indipendente dai sensi, perché amiamo ad esempio i broccoli, il caffè, i carciofi o il cioccolato fondente e storciamo invece il naso di fronte a pancetta, cicoria, fegato, funghi, gelato gorgonzola, pane con olio o burro, succo d'arancia, vino rosso, yogurt.

È questo il risultato di un’ampia ricerca su circa quattromila volontari e ottanta diversi cibi, sviluppata in due fasi. La prima ha dapprima valutato le abitudini alimentari dei partecipanti e, di questi, analizzato tutte le varianti genetiche dei cibi, arrivando a determinare quelle che modificano la loro gradevolezza al palato.

«Contrariamente alle nostre aspettative - spiega il ricercatore Nicola Pirastu - nessuno dei geni che influiscono con la ‘personalizzazione’ dei sapori era associato ai recettori del gusto o dell'olfatto». Poi la ricerca è stata ulteriormente ampliata, concentrandosi sulle basi genetiche della percezione del gusto salato, meno conosciute rispetto a quelle che regolano l'amaro o il dolce, risultato anch’esso correlato alle variazioni di un gene: il Kcna5. «Questa seconda indicazione - aggiunge la ricercatrice Antonietta Robino - può aiutare a capire meglio l’orientamento delle scelte alimentari di ciascuno e a sviluppare dei sostituti del sale, spesso consumato in eccesso nelle nostre diete». 

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LA PRATICA

Ma dove conduce questa ricerca? I risvolti possibili sembrano diversi, almeno tre: «Definendo le preferenze alimentari su base genetica – continuano i due ricercatori - potremmo programmare interventi nutrizionali più efficaci con l’inclusione nei piani dietetici di cibi ad hoc, legati cioè al metabolismo della persona e in parte al gusto, che ne favoriscano l’aderenza e il mantenimento per un tempo prolungato in caso di sovrappeso come è avvenuto per i nostri pazienti che, grazie a una dieta genetica strategica, in due anni hanno perso fino il 50% di peso in più rispetto a persone che seguivano una dieta tradizionale, aumentando la massa magra.

Oltre a ciò, potrebbe essere possibile modificare il gusto dei cibi meno apprezzati rendendoli più appetibili al palato, ma anche utilizzare la dieta genetica come ulteriore mezzo terapeutico per contrastare alcune patologie quali l’ipertensione, l’obesità e/o il diabete di tipo 2 in cui l’alimentazione corretta resta un punto di forza».

 


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