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Cardiologia
Donatella Barus
pubblicato il 24-10-2022

Medicina di genere: i cambiamenti lenti della ricerca sui farmaci



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In che modo la medicina di genere ci porterà a cure e prevenzione migliori? Ne parliamo con Flavia Franconi, una delle massime esperte in Italia.

Medicina di genere: i cambiamenti lenti della ricerca sui farmaci

Molto citata ma ancora in gran parte poco compresa, la prospettiva di genere in medicina e nella ricerca scientifica ha una storia giovane.


Flavia Franconi* ne è una delle massime conoscitrici in Italia e relatrice all'edizione 2022 della Conferenza mondiale Science for Peace and Health. In questa intervista ci aiuta a capire in che modo l'ottica di genere nel sistema di cura e di ricerca può fare la differenza sulla nostra salute.

 

Professoressa, che cos’è la medicina di genere?

«È un concetto spesso frainteso. Non è “la medicina delle donne” e neppure quella dell’uomo. Il genere è un concetto molto complesso che comprende le caratteristiche biologiche dell’individuo, che oggi sappiamo non essere solo binarie maschio-femmina, ma anche i suoi rapporti con il mondo, con la società. E include anche i determinanti di salute, come la povertà e in generale tutti gli aspetti psicologici, socio-economici, culturali, etici che incidono sulla salute. La medicina di genere quindi non si limita a studiare le differenze e le somiglianze fra uomo e donna. Possiamo pensarla come una medicina “olistica”, perché prende in considerazione l’individuo con le sue caratteristiche e la sua posizione in questo mondo. È una medicina della complessità che in realtà sappiamo ancora maneggiare poco».

Ha un nesso con la medicina della persona, dunque?

«Certamente, parte da lì. Io sostengo che oggi la medicina di precisione utilizza le metodiche molecolari, le cosiddette scienze “omiche” o “omics” (genomica, metabolomica, proteomica…), che però non bastano: occorre anche considerare un altro omic: la “personomics”, che pone al centro la persona».

Perché ne abbiamo bisogno?

«Perché la medicina per secoli è stata confezionata a misura di uomo e la donna si studiava prevalentemente per il suo apparato riproduttivo. Sul maschio caucasico sono stati sviluppati farmaci, strumenti, dispositivi, metodi di prevenzione e cura delle malattie. Che non sempre funzionano al meglio su persone diverse, sulle donne in primis, ma anche su altre etnie ad esempio. Non a caso in questi anni gli epidemiologi e la stessa OMS hanno parlato di sindemia (l’enciclopedia Treccani definisce la sindemia come “l’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione tra due o più patologie epidemiche, che comporta pesanti ripercussioni sulle condizioni di vita della popolazione colpita”, ndr). Significa che ci si ammala o si è sani per moltissimi fattori diversi, non solo il sesso o il genere, ma per la povertà, per il luogo in cui si vive, per la relazione medico paziente e via dicendo».

Quanto pesa il gender gap sulle disuguaglianze in tema di salute e prevenzione?

«Chi sono le persone più povere nel mondo? Le donne. Ci sono 435 milioni di donne che vivono in estrema povertà e con la pandemia questo numero è aumentato di circa il 9%. È ben documentato da anni il fatto che un basso livello socio-economico e un basso livello di istruzione sono associati a condizioni di salute peggiori. Se sei povero hai la stessa facilità per andare in ospedale? Per comprare i farmaci o per fare un controllo? Nel mondo sono pochi i paesi con una copertura sanitaria come quella del SSN italiano. Ma anche qui i farmaci in classe C si pagano, anche qui la dieta di una persona povera è meno salubre, con meno frutta e verdura e più carboidrati e grassi saturi. Sesso e povertà devono essere considerati ambedue e sono intimamente connessi».

Qual è la situazione nella ricerca sui farmaci?

«Rispetto al passato è aumentato il numero delle donne arruolate negli studi clinici sui farmaci, ma negli ultimi 30 anni non siamo progrediti molto, perché non abbiamo lavorato sul metodo. Ad esempio, in primo luogo, nella maggior parte dei casi si arruolano maschi e femmine, ma il sesso poi non viene considerato come variabile nell’analisi dei dati (la componente LGBT è ancora meno presente). In secondo luogo, il reclutamento delle donne è aumentato in alcune aree di studio e poco in altre (in oncologia, ad esempio, ma ancora scarso nelle malattie cardiovascolari, che restano la prima causa di morte). Terzo, le donne sono presenti in alcune fasi di sperimentazione, soprattutto in fase 3 (quando si valuta l’efficacia di un farmaco su grandi numeri di pazienti, il rapporto rischio/beneficio e il confronto con farmaci simili, ndr). In fase 1 (quando si valutano la sicurezza e la tollerabilità) sono appena il 10-15 per cento. In quarto luogo, poi, i dati non sono sempre analizzati al meglio. Un esempio: si misura un biomarker nell’uomo e nella donna alla stessa ora, senza però sapere se nell’arco della giornata i livelli di questo indicatore biologico variano nello stesso modo nell’uomo o nella donna. Il punto è che non si conosce qual è la normalità, il valore di riferimento, per la donna, o per la persona LGBT. E questo può fare una differenza cruciale. Ci sono voluti anni, ad esempio, per capire che i valori fisiologici di troponina sono diversi nell’uomo e nella donna, e queste proteine sono utilizzate come marcatori per fare una diagnosi di infarto! Si capisce che molte pazienti con un infarto hanno pagato caro il fatto che fosse considerato come “normale” un valore di troponina che invece doveva essere riconosciuto anomalo per una donna. Servono progetti strategici di ricerca per studiare la fisiologia delle donne e delle persone LGBT».

Quale segno lasciato dall’esperienza della pandemia sulla ricerca biomedica?

«Nel 2021 è stata pubblicata un’analisi degli studi dedicati al Covid-19 (citazione e link nelle fonti in calce all'articolo, ndr). Gli autori hanno esaminato 4.420 ricerche sul Covid dal gennaio 2020 al gennaio 2021: il 21% si limitava a riportare sesso e genere nella fase di reclutamento; solo il 5,4% sottolineava la variabile sesso/genere anche in altre fasi e solo il 4% (178 studi) la considerava come variabile analitica. E nella maggior parte dei casi il genere è stato considerato negli studi sui vaccini. È stato pressoché ignorato, invece, nello studio sul riposizionamento dei vecchi farmaci, che nell’urgenza delle prime fasi di pandemia è stato fondamentale. Per prendere le decisioni migliori per i pazienti occorre conoscere la farmacocinetica negli uomini e nelle donne, specialmente per i vecchi farmaci che in passato non erano stati valutati a dovere nelle donne. E il ragionamento non vale solo per i farmaci».

Ad esempio?

«I dispositivi medici sono studiati prevalentemente sull’uomo: lo sono le mascherine che indossiamo (anche se le hanno portate molto di più le donne degli uomini), lo sono alcuni modelli avanzati di cuore artificiale che si usano sui pazienti in attesa di trapianto, troppo grandi per il torace della maggior parte delle donne; lo sono anche gli aghi per le iniezioni: si sa che le donne hanno più tessuto adiposo nella zona dei glutei, è una delle differenze sessuali secondarie. Eppure si usa uno stesso ago. Nell’80% dei casi c’è un fallimento parziale o totale dell’iniezione intramuscolare, nell’uomo facciamo una intramuscolo nella donna una sottocutanea, con cambiamenti importanti della farmacocinetica».

Quale sarà il futuro della medicina di genere?

«Io credo che a un certo punto avverrà un cambiamento e si arriverà ad una medicina migliore e ad una prevenzione migliore. Non solo si incontreranno gli “omics”, ma cambierà il modo di pensare. Anche l’industria si accorgerà ad esempio che conviene a tutti fare aghi per donne e per uomini, anche se costa un po’ di più in ricerca. Spero che avvenga nelle prossime generazioni, spero si faccia una formazione adeguata, per il personale sanitario, parasanitario, estesa a tutte le facoltà scientifiche e non solo. Anche ingegneri e architetti vanno formati ad una prospettiva di genere, perché la prevenzione si fa anche progettando parchi fruibili, marciapiedi senza buche, ospedali, case di riposo, quartieri e mezzi di trasporto a misura di tutti».

 

*Flavia Franconi è una pioniera nel campo della Medicina e la Farmacologia, già professoressa ordinaria di Farmacologia, Università di Sassari dove ha istituito il primo dottorato in Farmacologia di Genere; Coordinatrice Piattaforma Medicina di Genere del Consorzio Interuniversitario INBB; Fondatrice e attuale Presidente onorario del Gruppo di Farmacologia di Genere della Società Italiana di Farmacologia; Componente del comitato editoriale della rivista Biology of Sex Differences. Autrice di oltre 200 pubblicazioni su riviste e libri internazionali di cui oltre 70 pubblicazioni e curatrice di 6 volumi sulle tematiche di sesso/genere

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Donatella Barus
Donatella Barus

Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.


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