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Laura Costantin
pubblicato il 24-06-2019

Autofagia per combattere la sindrome di Alzheimer



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Stimolare lo “smaltimento dei rifiuti” delle cellule potrebbe ridurre la morte dei neuroni nell’Alzheimer: questo l’obiettivo della ricerca di Matteo Bordi

Autofagia per combattere la sindrome di Alzheimer

Le malattie neurodegenerative come l’Alzheimer sono caratterizzate da una lenta ma inesorabile diminuzione delle abilità mentali: i soggetti malati hanno difficoltà a svolgere le normali attività quotidiane, perdono progressivamente il controllo del movimento, la memoria e sviluppano difficoltà di linguaggio.

Il declino cognitivo è accompagnato dalla morte dei neuroni, le cellule responsabili di elaborare e trasmettere i segnali nel cervello: quando i neuroni vengono a mancare nelle aree cerebrali che controllano la memoria, il pensiero o la parola, si osservano i conseguenti deficit cognitivi. I meccanismi responsabili di questo processo, tuttavia, sono ancora poco noti.

Studi recenti indicano che l’autofagia, un processo fisiologico di “smaltimento” dei rifiuti cellulari, possa essere coinvolto nella degenerazione dei tessuti associata all’insorgenza e allo sviluppo dell’Alzheimer. Quando questo fondamentale meccanismo biologico non funziona correttamente, i materiali di scarto della cellula si accumulano nei neuroni con conseguente stress ossidativo, che porta alla morte delle cellule. Regolare i processi di autofagia potrebbe quindi rivelarsi una strategia vincente per proteggere le cellule e sviluppare nuove cure per l’Alzheimer. Su questa ipotesi si basa il lavoro di Matteo Bordi, biologo e ricercatore dell’Università di Roma Tor Vergata, con il supporto di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

L'Alzheimer si previene (anche) con l'attività fisica

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20-09-2018
Matteo, ci spieghi cos’è l’autofagia e a cosa serve?

«Autofagia è un termine che deriva dal greco e significa mangiare sé stessi. Si tratta di un processo biologico fondamentale per la sopravvivenza delle cellule, grazie al quale le sostanze da eliminare – come proteine mutate, mitocondri danneggiati e altri materiali di scarto – vengono degradate e utilizzare per costruire componenti nuovi di zecca».

Dove avviene questo processo di “smaltimento e riciclo”?

«La cellula è dotata di vescicole specifiche, chiamate lisosomi, che funzionano come un piccolo intestino: contengono enzimi in grado di distruggere i materiali da riciclare e smontarli nei loro elementi essenziali, utilizzati poi per costruire nuove componenti. Per svolgere queste funzioni, il lisosoma ha bisogno di un pH acido, generato dall’attività di un complesso proteico, la V-ATPasi».

Quel collegamento tra sindrome di Down, Alzheimer e diabete

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16-07-2018
E come potrebbe essere legato all’Alzheimer questo meccanismo?

«Sappiamo che negli stadi più tardivi dell’Alzheimer l’attività della V-ATPasi è meno efficiente, e sappiamo inoltre che l’inibizione di questo complesso proteico causa una diminuzione dell’autofagia con conseguente aumento della morte cellulare. Il mio progetto punta quindi a studiare come questo meccanismo molecolare sia coinvolto nello sviluppo del morbo di Alzheimer».

Quali ricadute potrebbe avere il tuo studio sulla salute umana?

«L'obiettivo finale e? sviluppare una nuova strategia terapeutica basata sulla modulazione dell’attività della V-ATPasi per stimolare la rimozione dei materiali danneggiati nelle cellule dei pazienti affetti da morbo di Alzheimer e proteggerle dalla morte».

Studio il ruolo della Beta-amiloide nell'insorgenza dell'Alzheimer

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04-12-2017
Sei stato per più di quattro anni a New York dopo il dottorato. Cosa puoi dirci di questo periodo di ricerca all’estero?

«È stata una delle esperienze più belle della mia vita. New York è una città piena di persone incredibili, con alcune ho stretto amicizia, con altre ho avuto l’onore di lavorare. All’estero i tuoi amici sono la tua famiglia, i rapporti sono più forti e solidi, ci si sente parte viva di una comunità e questa è la cosa che mi manca di più di New York».

Sembra che tu sia riuscito a trasformare la tua passione in un lavoro. Qual è l’aspetto della ricerca che ti piace di più?

«Mi piace la sfida, mettermi in competizione con la natura per carpirne i segreti e scoprire i complessi meccanismi che si celano dietro a ogni meccanismo biologico».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«I fallimenti. È frustrante lavorare mesi e poi scoprire che la tua idea iniziale era sbagliata, ma anche questo fa parte del gioco».

La prima parola che ti viene in mente se dico scienza e ricerca?

«Futuro. Dobbiamo puntare sulla scienza e sulla ricerca per garantirci un futuro migliore a noi e alle generazioni future».

Dalle tue parole traspare molta passione: hai una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale?

«Rita Levi Montalcini e Paul Greengard, il premio Nobel assieme a Kandel e Carlsson per gli studi sulla memoria. Ho avuto l’onore di poter conoscere entrambi e mi hanno folgorato con le loro capacità».

Matteo fuori dal laboratorio. Hai qualche hobby particolare?

«Le mie passioni sono la corsa e l’enologia, due attività che non vanno proprio a braccetto tra loro!».

Raccontaci una “pazzia” che hai fatto.

«In tre mesi decidere di trasferirmi a New York, chiedere la mano di mia moglie, organizzare il matrimonio e volare a New York. Per un anno e mezzo abbiamo fatto i pendolari, poi mia moglie mi ha raggiunto nella grande Mela».

E se un giorno tuo figlio o figlia ti dicesse che vuole fare ricerca?

«Gli direi di seguire le sue passioni, senza curarsi degli altri».

Un ricordo che ti è particolarmente caro di quando eri piccolo?

«Il trenino elettrico e mio padre con i baffoni».

E dove ti vedi invece fra 10 anni?

«Spero di diventare professore. Penso che l’insegnamento sia un mestiere costruttivo e stimolante e vorrei avere l’opportunità di trasmettere la mia passione per la scienza alle nuove generazioni».


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