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Laura Costantin
pubblicato il 29-07-2019

La ricerca per evitare i tumori secondari dovuti alla chemioterapia



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I chemioterapici, in rari casi, sono correlati all’insorgenza di neoplasie secondarie. Giulia Falconi punta a individuare i pazienti a rischio per indirizzarli verso terapie mirate

La ricerca per evitare i tumori secondari dovuti alla chemioterapia

La chemioterapia tradizionale è un’arma molto potente contro il cancro. Questo approccio farmacologico è in grado di interferire con la capacità delle cellule tumorali di dividersi velocemente e impediscono così la crescita e la diffusione della malattia. La maggior parte delle cellule sane si riproduce molto meno, in momenti ben precisi. E per questo motivo non risente dell’azione dei chemioterapici.

Esistono, tuttavia, cellule sane che si riproducono in maniera continua e che quindi subiscono l’azione dei farmaci antitumorali. In questo modo si spiegano gli effetti collaterali più comuni della chemioterapia - tra cui stanchezza, anemia, perdita di capelli, nausea, vomito, diarrea - che però generalmente scompaiono al termine del trattamento proprio grazie alla capacità dei tessuti di rigenerarsi. 

Sebbene gli effetti collaterali a lungo termine della chemioterapia siano solitamente limitati (a eccezione di danni a cuore, reni e nervi, che vanno attentamente monitorati), in rari casi è possibile che i farmaci antitumorali causino essi stessi tumori, correlati alla chemioterapia. In particolare alcune sostanze chemioterapiche (come cisplatino, antracicline e alcuni agenti alchilanti) possono indurre tumori del sangue, come sindrome mielodisplastica, leucemia mieloide acuta o linfocitica acuta (in seguito a diversi anni di trattamento).

Si tratta di un problema emergente in oncologia perché, proprio grazie ai miglioramenti nelle cure, la sopravvivenza dei pazienti trattati è aumentata. Individuare i pazienti ad alto rischio di sviluppare tumori secondari è quindi essenziale per valutare strategie terapeutiche alternative.

Questo il compito di Giulia Falconi, biologa dell’Università Cattolica di Roma sostenuta da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

 

Giulia, di cosa ti occupi nel tuo progetto?

«Alcuni tumori del sangue, in particolare le leucemie mieloidi acute e le sindromi mielodisplatiche, possono insorgere come complicanza tardiva della chemioterapia utilizzata nel trattamento del cancro primitivo. Nonostante siano considerate delle malattie rare, questi tumori secondari sono caratterizzati da una prognosi infausta e la sopravvivenza a cinque anni è bassa».

Quali sono i fattori che influenzano lo sviluppo dei tumori secondari?

«Si ipotizza che fattori di tipo ambientale e variazioni individuali nello smaltimento dei farmaci e nei meccanismi di riparazione del Dna siano coinvolti nello sviluppo di queste malattie. Inoltre è molto probabile che vi sia anche una predisposizione genetica». 
 

Il tumore primitivo può avere un ruolo in questo processo?

«Sì, e il mio progetto mira proprio a studiare il genoma dei pazienti con un tumore secondario alla ricerca di informazioni sui meccanismi responsabili della ricomparsa di malattia e resistenza ai farmaci». 


Come pensi di fare?

«Il progetto coinvolgerà pazienti colpiti in passato da leucemia linfatica cronica e trattati con il mix di chemioterapici composto da Fludarabina, Ciclosfosamide e Rituximab. Circa il cinque per cento di questi pazienti sviluppa una recidiva tumorale e il mio obiettivo è studiare il loro profilo genetico: sia alla diagnosi iniziale sia dopo lo sviluppo della neoplasia secondaria. In questo modo spero di identificare le mutazioni genetiche e i fattori di rischio in grado di prevedere lo sviluppo del tumore secondario. Individuare precocemente i soggetti a rischio di sviluppare tumori secondari permetterà di valutare eventuali terapie alternative per questi pazienti».


Giulia, raccontaci di te e del tuo mondo di ricercatrice.

«Fare ricerca è per me il lavoro più bello del mondo. Più che un lavoro è una passione, che consente di conciliare il piacere di studiare con la verifica sperimentale delle proprie ipotesi e ti sprona a dare sempre il meglio di te».

 

Cosa ti spinge ad andare avanti?

«Sapere che il mio lavoro può aiutare e dare speranza alle persone che soffrono».

 

C’è un episodio della tua vita professionale che non potrai mai scordare?

«Per un ricercatore ogni successo sperimentale è un evento indimenticabile, soprattutto se le nuove scoperte hanno un’applicazione pratica. Anche vincere la borsa di studio finanziata da Fondazione Umberto Veronesi è stato uno dei momenti più belli ed emozionanti della mia carriera. Colgo l’occasione per ringraziare la Fondazione, impegnata da anni nel sostegno di tanti giovani ricercatori come me».

 

E un episodio che invece vorresti dimenticare?

«Momenti difficili ce ne sono stati tanti, ma sono proprio le difficoltà che ti spronano a fare meglio».

 

Che cos’è per te la ricerca?

«Creatività, confronto e arricchimento continuo. La ricerca è una vera e propria scuola di vita. Il momento esatto in cui finisci un esperimento e scopri qualcosa, non vedi l’ora di condividerlo e questo è un piacere indescrivibile che mi ripaga dei tanti sacrifici fatti fino a quel momento.

 

Hai un compagno, anche lui ricercatore come te. Se un giorno i tuoi figli ti dicessero di voler fare ricerca, come reagiresti?

«Ne sarei orgogliosa e li sosterrei nelle loro scelte come hanno fatto i miei genitori con me. Allo stesso tempo sarei preoccupata per il lungo e tortuoso percorso che spesso non ti permette di fare progetti. Ma spero che, in un futuro non troppo lontano, la situazione cambi in meglio».

 

Una cosa che vorresti assolutamente vedere almeno una volta nella vita.

«L’aurora boreale».

 

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«L’ipocrisia e la falsità».

 


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