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Alessandro Vitale
pubblicato il 03-07-2020

Quale ruolo per la proteina TRIM32 nelle distrofie muscolari?



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Intervista a Elisa Lazzari, impegnata nella lotta alle distrofie muscolari: «Le nostre scoperte utili anche per chi lavora sulle malattie neurodegenerative»

Quale ruolo per la proteina TRIM32 nelle distrofie muscolari?

Le distrofie muscolari sono un gruppo eterogeneo di malattie genetiche caratterizzate da una degenerazione del muscolo scheletrico, che causa perdita di massa muscolare (atrofia) e compromette la mobilità e l’attività cardio-respiratoria. Oggi, dopo anni di studio, non esiste una cura efficace ed estesa a tutti i tipi di distrofia.

I tipi più comuni sono la distrofia di Duchenne, che insorge prima dei 5 anni di età, e la distrofia di Becker, che si manifesta a partire dai 12 anni. Esiste poi una categoria di distrofie, chiamate distrofie muscolari dei cingoli, che nel loro insieme sono caratterizzate da debolezza dei cingoli pelvici (la parte dello scheletro che raccorda la colonna vertebrale agli arti inferiori, costituita dal sacro, le due ossa iliache, il coccige e dalle relative articolazioni) e delle spalle. In queste forme distrofiche può essere compromessa la funzione cardiaca e respiratoria.

Su queste patologie si concentra il lavoro di Elisa Lazzari, biologa dell’Università degli Studi di Trieste, che sta conducendo il suo progetto di ricerca grazie al sostegno di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

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Elisa, raccontaci del tuo lavoro di ricerca.

«Il progetto studierà il ruolo di una proteina, chiamata TRIM32. Mutazioni in questa proteina sono associate a una forma di distrofia muscolare dei cingoli tipo R8, che colpisce soprattutto i muscoli degli arti e causa progressivo indebolimento e perdita di mobilità».

 

Si conosce qualcos’altro, relativamente a questa progressiva perdita funzionale?

«Ciò che sappiamo è che in condizioni normali il tessuto dei muscoli è dinamico e nel corso della vita va incontro a rimodellamento, bilanciando la degradazione delle proteine muscolari con la rigenerazione di nuove fibre. La nostra ipotesi è che la degenerazione del muscolo osservata nei pazienti potrebbe essere causata sia da difetti nel muscolo, sia da difetti nel tessuto nervoso che innerva le fibre muscolari. Per questo motivo ci siamo riproposti di studiare il ruolo di TRIM32, usando dei modelli cellulari che replicano il differenziamento (cioè lo sviluppo, ndr) delle cellule muscolari e dei motoneuroni».

 

Qual è il vostro obiettivo?

«Studiando queste linee cellulari, vorremmo riuscire a individuare i potenziali difetti in questi processi causati dalle mutazioni in TRIM32, chiarendo così il meccanismo patogenico alla base della malattia. La conoscenza dei meccanismi molecolari alla base dei normali processi fisiologici è fondamentale, in quanto variazioni da questa normalità risultano in malattie più o meno gravi. Grazie allo studio dei meccanismi di differenziamento delle cellule muscolari e neuronali ci proponiamo l'obiettivo di individuare nuovi bersagli terapeutici per questa forma di distrofie muscolari. E non solo».

 

C’è di più?

«Le conoscenze che otterremo in campo neuronale potranno avere un utilizzo per la cura di malattie neurodegenerative. E non solo. La conoscenza dei meccanismi alla base legati al differenziamento cellulare potrebbe fornire indicazioni utili anche per malattie di tipo oncologico, che in alcuni casi sono caratterizzate da malfunzionamenti proprio in questo processo».

 

Elisa, sei mai stata all’estero per un’esperienza di ricerca?

«Sì, a Dublino, subito dopo aver conseguito la laurea specialistica. Durante il tirocinio, una delle ricercatrici che mi seguivano mi ha raccontato della sua esperienza in un laboratorio americano, dove era stata un anno. Mi ha parecchio incuriosito e ho iniziato a fare domande per dottorati all'estero, finchè non ho avuto una risposta positiva da Dublino. Due settimane dopo la laurea, sono così partita per il colloquio. E sono stata selezionata: dopo neanche due mesi, ero in partenza per questa avventura».

 

Ti è mancata l’Italia?

«L'esperienza di dottorato all'estero, in quel momento della mia carriera, mi è servita tantissimo. Per la prima volta ero sola e ho imparato a contare solo sulle mie forze, sia in laboratorio che fuori. Ho visto un ambiente di ricerca diverso da quello a cui ero abituata, molto dinamico e internazionale. L'Italia mi è mancata, ma più pensando alla mia famiglia: era un tormento salire in aereo dopo le vacanze. E anche per il clima: il cielo d'Irlanda mi ha fatto rimpiangere non poco il nostro amato sole italiano».

 

Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«Sono sempre stata interessata alle materie scientifiche, curiosa e con un buono spirito di osservazione. Al liceo ho iniziato a studiare più seriamente geologia, fisica, chimica e biologia. Ma è proprio quest’ultima che mi ha affascinato: capire il funzionamento degli organismi più piccoli fino ad arrivare al nostro corpo umano, dallo studio della cellula fino alle molecole che in un’azione coordinata, come in un’orchestra, significano vita».

 

Beh, si può dire che la tua strada fosse segnata.

«Sì. Mi sono iscritta a biologia senza tentennamenti. E dai primi laboratori didattici fino alle esperienze di tirocinio, mi sono sempre più immersa nel mondo del laboratorio, delle domande e degli esperimenti».


Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare.

«L’istante in cui ho letto l'email di Fondazione Umberto Veronesi con la risposta positiva alla mia richiesta di borsa di ricerca: è stato il primo vero riconoscimento da me ottenuto».

 

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Mi piacerebbe essere ancora in prima linea, a condurre esperimenti al bancone».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Puoi svegliarti una mattina con un’idea e avere la possibilità di sperimentarla in tempo breve… con risultati positivi o meno, certo, a priori non si può sapere. Però è una libertà che immagino non sia presente in molti altri tipi di lavoro. E le soddisfazioni di un esperimento riuscito, o di una pubblicazione, ripagano i sacrifici e il duro lavoro».

 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La parte più burocratica del nostro lavoro e la precarietà che spesso interrompe le carriere di buoni ricercatori e impedisce a buone idee di essere sviluppate».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Il progresso, impossibile senza la combinazione di questi due elementi».

 

Cosa avresti fatto se non avessi fatto la ricercatrice?

«Mi affascinano geologia e astrofisica: ma credo che avrei fatto la ricercatrice anche in quei campi».

 

In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«La scienza dovrebbe essere più vicina ai singoli cittadini, i laboratori e i centri di ricerca dovrebbero essere aperti ad attività di divulgazione scientifica ed essere più presenti all’interno della comunità. Per esempio, il College dove ho svolto il dottorato in Irlanda organizza a Natale un pranzo per gli anziani del quartiere in cui sorge. Si tratta di un momento di festa, ma anche di un’opportunità per confrontarsi. Il lavoro di chi fa scienza dovrebbe essere rispettato e magari finanziato maggiormente per garantire maggiore stabilità e continuità: sia al singolo ricercatore sia ai progetti scientifici».

 

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Penso che in generale la popolazione abbia fiducia nella scienza. Troppo spesso però le nostre parole sono messe in discussione e questo può creare confusione e disorientamento».

 

Cosa fai nel tempo libero?

«Ho recentemente scoperto una grande passione per la montagna, pratico arrampicata sportiva da qualche anno e non perdo occasione per fare escursioni, vie ferrate e ciaspolate nella neve».

 

Il film che più ti piace o ti rappresenta.

«Blade Runner di Ridley Scott».

 

Ricordi l’ultima volta in cui ti sei commossa?

«Recentemente, durante l’epidemia Covid-19. È accaduto nei primi giorni, quelli peggiori, vedendo gli ospedali travolti dall'emergenza. Non riuscivo a spiegarmi come mai la mia nazione fosse stata colpita così duramente. Però è stata commuovente anche la risposta dei cittadini: spero che ci porteremo dentro nuova consapevolezza, dopo aver messo alle spalle questa esperienza».

 

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.

«Tantissime! Dovendo scegliere… vorrei vedere un’aurora boreale».

 

Cosa ti sentiresti di dire a chi sceglie di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Ringrazio profondamente tutte le persone che ogni giorni scelgono di donare in favore della ricerca scientifica, perchè molto (troppo) spesso siete l’unica risorsa per noi scienziati per portare avanti il nostro lavoro e il futuro di tutti».

 

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