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Neuroscienze
Daniele Banfi
pubblicato il 12-10-2022

Alzheimer: diagnosi precoce e anticorpi cambieranno la malattia


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Oggi la diagnosi di malattia è possibile, anche precocemente, grazie all'utilizzo di biomarker. Rallentare la malattia con gli anticorpi contro la beta-amiloide la strategia del futuro

Alzheimer: diagnosi precoce e anticorpi cambieranno la malattia

Nell’immaginario comune la malattia di Alzheimer rappresenta una condanna. Una malattia su cui nulla è possibile fare. Esattamente come una diagnosi di tumore prima degli anni ’60. Eppure qualcosa sta cominciando a cambiare. «Diagnosi precoce, interventi mirati per il decadimento cognitivo e sviluppo di terapie con anticorpi capaci di ridurre la progressione della malattia non sono più un miraggio” spiega la dottoressa Maria Teresa Ferretti, neuroimmunologa e responsabile scientifico di Women’s Brain Project (WBP).

ALZHEIMER E DEMENZA

Nel mondo, secondo i dati dell’organizzazione mondiale della Sanità, sono oltre 55 milioni le persone che convivono con l’Alzheimer, una delle principali cause di disabilità e non autosufficienza tra le persone anziane. Fra tutte le malattie che possono causare la demenza nell’anziano, l’Alzheimer è quella più comune (70% dei casi). «Nel linguaggio comune i termini Alzheimer” e “demenza” -spiega la dottoressa Ferretti- sono spesso usati come sinonimi, ma non lo sono. Di fatto, la prima è una malattia (Alzheimer), l’altra (la demenza) è un insieme di sintomi, che in gergo medico si definisce “sindrome”. L’Alzheimer è dunque una malattia neurodegenerativa, ciò vuol dire che causa una perdita progressiva delle cellule nervose e delle loro connessioni. Come avviene per gli altri organi quando sono danneggiati, le lesioni dell’Alzheimer causano una perdita di funzione, cerebrale, nel caso specifico, fino alla demenza».

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TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI

UNA DIAGNOSI CERTA

Sino a pochi anni fa la diagnosi di malattia di Alzheimer era ancora incerta, per lo più basata su una visita dal neurologo. Anche nel migliore dei casi, lo specialista si esprimeva fornendo una diagnosi di Alzheimer probabile: la risposta definitiva sarebbe venuta da un (eventuale) esame del cervello dopo la morte attraverso un’autopsia. Oggi lo scenario è cambiato radicalmente perché finalmente abbiamo a disposizione dei biomarcatori la cui presenza è associata alla malattia. Essenzialmente si tratta di biomarcatori per immagini -in cui le lesioni tipiche della malattia possono essere visualizzate con una TAC- e di biomarcatori liquidi -la presenza è rilevata nel sangue o nel liquido cefalorachidiano-. «Avere a disposizione questi strumenti -spiega l’esperta- è di fondamentale importanza. Si stima che al momento il 75% dei casi di demenza al mondo non sia diagnosticato. Poter avere una diagnosi certa è il primo passo verso un approccio personalizzato alla malattia. Non solo, conoscere con anticipo la presenza dei primi segni della malattia è cruciale per monitorare l’evoluzione e intraprendere eventuali correttivi».

IL FALLIMENTO DELLE CURE

Aver identificato con certezza la presenza della malattia attraverso dei marcatori specifici ha aperto ora ad una nuova “fase storica” nella sperimentazione di possibili cure. La malattia di Alzheimer, essenzialmente, è causata dalla presenza di ammassi di proteina beta-amiloide che danneggia i neuroni. Ecco perché negli anni l’obbiettivo principale della ricerca è stato quello di creare farmaci in formulazione di anticorpo capaci di intercettare e neutralizzare la proteina anomala che si accumula. Una ricerca che ha portato alla realizzazione dei primi trial clinici che però non hanno fornito inizialmente i risultati sperati. Un “fallimento” che però non ha rappresentato affatto la pietra tombale della ricerca sul ruolo degli anticorpi nell’Alzheimer. «Questi studi -spiega la Ferretti- sono nati male in partenza. Mi spiego: in assenza di biomarcatori moltissime persone coinvolte in quei vecchi studi clinici avevano ricevuto un farmaco contro una patologia che non avevano. Non c’era da stupirsi, dunque, dei risultati negativi. La questione dell’assenza dei biomarcatori però non fu la sola: gli anticorpi di prima generazione portarono anche ad effetti collaterali molto importanti e per questa ragione la ricerca ha subito un forte rallentamento».

NUOVI APPROCCI

I rischi di stoppare definitivamente la ricerca sull’utilizzo degli anticorpi nell’Alzheimer erano elevatissimi. Solo la tenacia di alcuni ha fatto sì che questo non accadesse. «Molti studiosi coinvolti negli esperimenti originali erano ancora convinti che l’idea di sfruttare il sistema immunitario fosse valida e che bisognasse solo trovare il meccanismo giusto. Fra le persone che avevano ricevuto il farmaco e poi decedute -che avevano donato il loro cervello alla scienza- si vide che vaste aree cerebrali erano ripulite dall’amiloide. Nei pazienti che avevano sviluppato anticorpi contro l’amiloide, secondo uno studio, c’era stato persino un misurabile miglioramento cognitivo» spiega la ricercatrice. Motivi che hanno indotto a proseguire e a realizzare anticorpi di nuova generazione oggi in fase di sperimentazione.

LE NOVITA’ DALLA RICERCA

Recentemente le farmaceutiche Biogen e Aisai hanno annunciato i risultati positivi di Clarity, un trial clinico di fase III con l’anticorpo lecanemab. Dalle analisi è emerso che nei pazienti con lieve declino cognitivo e con presenza di placche beta-amiloidi confermata, il trattamento con l’anticorpo ha portato ad una riduzione della progressione della malattia. Un risultato importante, seppur proveniente da un comunicato dell’azienda (in attesa della presentazione ufficiale dei dati durante il prossimo Clinical Trials on Alzheimer's Congress) che fanno ben sperare circa la possibilità di rallentare la malattia e che dimostrano l’importanza dell’agire precocemente sulle placche beta-amiloidi. La speranza è che anche gli altri anticorpi in fase di test, avendo sempre come target le placche, possano dare risultati simili.

TRATTAMENTI INTEGRATI

Una serie di nuovi anticorpi potrebbero dunque arrivare ai pazienti in tutto il mondo nei prossimi anni. Attenzione però a pensare che questi possano diventare la cura definitiva per l’Alzheimer. «La malattia è complessa. Credo che l’approccio alla patologia non sarà solo nella capacità di un farmaco ma la cura non sarà altro che l’utilizzo di diverse terapie che andranno a risolvere specifici aspetti dell’Alzheimer. In futuro i pazienti riceveranno una combinazione di farmaci e di trattamenti, un cocktail personalizzato, per gestire la malattia di ciascun individuo. Di fondamentale importanza, proprio come per i tumori, sarà la diagnosi precoce. Solo intervenendo precocemente potremo rallentare la progressione e gestire l’Alzheimer il più a lungo possibile» conclude la Ferretti.

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Daniele Banfi
Daniele Banfi

Giornalista professionista è redattore del sito della Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.


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