Un programma integrato di esercizio fisico e stimolazione cognitiva, svolto in gruppo, può non solo migliorare la memoria e le funzioni motorie in persone con decadimento cognitivo lieve (MCI), ma anche modulare in senso positivo l’infiammazione sistemica, uno dei processi biologici alla base delle malattie neurodegenerative come l'Alzheimer. A dimostrarlo è un nuovo studio italiano sul protocollo “Train the Brain” -coordinato dalla professoressa Michela Matteoli dell’IRCCS Humanitas e pubblicato su Brain, Behavior, and Immunity- che ha misurato per la prima volta l’effetto dell’intervento su specifici biomarcatori infiammatori nel sangue.
RALLENTARE IL DECLINO COGNITIVO
Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità l’Alzheimer, ad oggi, affligge oltre 55 milioni di persone nel mondo ed entro il 2050 i casi potrebbero triplicare. Nonostante i recenti progressi nelle terapie farmacologiche, le opzioni per rallentare la malattia sono molto limitate. In questo contesto l’interesse per strategie di prevenzione precoce si è progressivamente consolidato, soprattutto nei confronti delle persone con MCI, una condizione intermedia tra invecchiamento normale e demenza. Recenti studi come FINGER e MAPT hanno dimostrato che interventi “multidominio”, ovvero combinazioni di attività fisica, stimolazione cognitiva, dieta e socialità, possono migliorare le funzioni cognitive e ridurre il rischio di declino. Ad oggi però ancora poco chiari i meccanismi biologici alla base di questi effetti, in particolare per quanto riguarda il ruolo dell’infiammazione.
IL PROTOCOLLO TRAIN THE BRAIN
Nello studio da poco pubblicato i ricercatori italiani hanno provato a chiarire gli attori in gioco. L'analisi rientra nel più ampio progetto Train the Brain, un programma multidominio ideato per stimolare contemporaneamente corpo e mente attraverso esercizio fisico, attività cognitive e interazione sociale. Il protocollo, sviluppato all'interno del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa, prevede sessioni strutturate settimanali di allenamento aerobico, potenziamento muscolare e training cognitivo in piccoli gruppi, in un ambiente socialmente arricchito.
RALLENTARE L'INVECCHIAMENTO
In questo nuovo studio, 76 persone con decadimento cognitivo lieve, di età compresa tra 65 e 80 anni, sono state divise in due gruppi: uno ha seguito il programma per sette mesi, l’altro ha continuato con le normali cure. Oltre a test neuropsicologici e risonanze magnetiche cerebrali, i ricercatori hanno analizzato il sangue dei partecipanti per valutare l’andamento di marcatori infiammatori e neurotrofici. Al termine del percorso, chi aveva seguito il programma mostrava un miglioramento delle funzioni mnemoniche e della circolazione sanguigna a livello cerebrale, soprattutto nelle aree dell’ippocampo.
Ma il dato più rilevante è stato di tipo biologico: nel gruppo allenato si osservava una netta riduzione di alcune molecole infiammatorie – come IL-6, IL-17A, TNFα e CCL11 – note per essere coinvolte nei processi di neurodegenerazione e invecchiamento cerebrale. Contestualmente, si è osservata una stabilizzazione, o in alcuni casi un aumento, delle citochine anti-infiammatorie come IL-10, TGFβ e IL-4, molecole che contribuiscono a mantenere un ambiente cerebrale protetto, limitando i danni infiammatori. È stato inoltre preservato il livello di BDNF, un fattore di crescita fondamentale per la plasticità neuronale, la formazione di nuove connessioni e il consolidamento della memoria.
MISURARE L'EFFICACIA DEL TRATTAMENTO
Tra tutti, l’interleuchina-10 (IL-10) è emersa come potenziale biomarcatore periferico di efficacia dell’intervento, grazie alla sua duplice capacità di inibire l’infiammazione e promuovere la sopravvivenza dei neuroni. La sua presenza stabile nel sangue dei partecipanti che avevano seguito il programma potrebbe rappresentare un segnale precoce dell’efficacia della stimolazione cognitivo-fisica nel contrastare il declino.
I risultati indicano che parte dei benefici cognitivi osservati potrebbe essere legata alla capacità dell’intervento di ridurre l’infiammazione che accompagna l’invecchiamento cerebrale. Un effetto che apre due prospettive importanti: da un lato, la possibilità di usare specifiche molecole nel sangue come indicatori dell’efficacia degli interventi; dall’altro, l’idea di adattare le strategie preventive alle caratteristiche biologiche di ciascuna persona.
SCOMMETTERE SULLA PREVENZIONE
In un momento in cui le terapie contro l’Alzheimer sono ancora parzialmente efficaci e spesso molto costose, agire prima dell’arrivo della malattia con strumenti non farmacologici, validati dalla ricerca e facilmente monitorabili, rappresenta una strada concreta. In attesa di conferme da studi più ampi, il messaggio è chiaro: agire prima che la malattia si manifesti è possibile. E misurabile.