
La ricerca oncologica è, per natura, un lavoro di squadra. In laboratorio convivono competenze diverse che si intrecciano ogni giorno: c’è chi progetta e conduce esperimenti al bancone, chi analizza grandi moli di dati informatici, chi traduce i risultati in protocolli clinici, chi coordina progetti e finanziamenti.
A questa professione si arriva da più strade: lauree scientifiche di ambiti differenti possono condurre alla stessa stanza di laboratorio. Il percorso si articola in tappe: si parte dalle scelte universitarie, si prosegue con il dottorato di ricerca, si cresce durante uno o più periodi di postdoc e, per chi continua in accademia o nei grandi istituti, si approda a ruoli di responsabilità crescente.
Lungo la strada contano tanto le conoscenze tecniche quanto le competenze trasversali, la capacità di comunicare e di fare rete, la tenuta psicofisica di fronte a imprevisti e fallimenti, la motivazione profonda e la consapevolezza dell’impatto sociale del proprio lavoro.
Non esiste una sola laurea “giusta” per diventare ricercatore in oncologia. I percorsi tipici sono biologia e biotecnologie, spesso seguiti da una magistrale più mirata; ma la ricerca moderna ha bisogno anche di medici che dedicano parte della loro carriera alla scienza di base o traslazionale, di farmacisti e laureati in chimica, che portano competenze essenziali per lo sviluppo di farmaci, di bioinformatici e biostatistici con solide basi computazionali e di statistica, di ingegneri biomedici. Questo mosaico di profili rispecchia l’organizzazione reale di un laboratorio: il cosiddetto ricercatore “wet” progetta e conduce esperimenti su cellule, tessuti o modelli animali; accanto a lui, il ricercatore “computazionale” interroga banche dati, scrive algoritmi, integra dataset complessi e fa emergere connessioni che guidano le ipotesi da verificare sperimentalmente in laboratorio o forniscono interpretazioni globali dei dati che provengono dagli esperimenti a bancone. La forza della ricerca contemporanea sta proprio nell’incontro tra questi mondi.
Il dottorato è il primo vero passaggio dalla formazione alla professione. Si entra con una laurea magistrale e si lavora per alcuni anni su un progetto originale, affiancando attività di laboratorio o di analisi dati a corsi avanzati, seminari, lettura critica della letteratura scientifica e, soprattutto, scrittura e pubblicazione di articoli. Esistono dottorati più sperimentali, altri più clinici (spesso intrapresi da medici) e percorsi computazionali centrati su bioinformatica e data science; molti programmi, anche quando hanno un titolo molto specifico come “oncologia molecolare”, offrono un ventaglio di insegnamenti ampio per costruire una preparazione solida e trasversale.
La durata è variabile: in Italia la norma è di tre anni, ma all’estero è frequente che il percorso si estenda, anche per molti anni, in base agli obiettivi scientifici, agli standard del gruppo di ricerca e agli esiti della ricerca condotta. È un periodo di transizione impegnativo, in cui si impara a gestire un progetto con autonomia crescente e si sperimentano, spesso per la prima volta, responsabilità, tempi lunghi e incertezze tipiche del lavoro di ricerca. Esperienze all’estero, anche temporanee, ampliano competenze e rete di contatti.
Il dottorato è la via più comune, ma non l’unica. In ambito diagnostico esistono scuole di specializzazione post-laurea che possono avvicinare alla ricerca, soprattutto in ospedale e nei contesti clinici. Percorsi come microbiologia, patologia clinica, immunologia, genetica medica o chimica clinica sono talvolta accessibili anche a biologi e biotecnologi (oltre che ai medici) e consentono di contribuire a progetti scientifici rimanendo a cavallo tra diagnosi e ricerca. La disponibilità e le regole di accesso variano e non tutte le specializzazioni sono aperte a tutte le figure, ma in alcuni contesti la specializzazione è stata utilizzata anche come leva per l’inserimento stabile in strutture ospedaliere a vocazione scientifica, continuando a fare ricerca in parallelo.
Dopo il dottorato, il postdoc rappresenta la fase in cui si cresce davvero come scienziati. È qui che aumentano autonomia e responsabilità: si guidano linee di lavoro, si coordinano studenti e tesisti, si scrivono i primi bandi come proponenti, si impara a prendere decisioni e a gestire tempi e risorse. Spesso se ne fanno uno o due, in Italia o all’estero, anche in funzione della qualità del gruppo e delle opportunità di pubblicazione. È un passaggio cruciale per costruire un profilo scientifico competitivo e capire quale direzione prendere: continuare verso la guida di un gruppo come PI (principal investigator, o i responsabili di un laboratorio o di un gruppo di ricerca), consolidarsi come figura senior in team complessi o migrare verso industrie e ruoli extra-accademici.
In Italia la ricerca oncologica si svolge in molteplici contesti. Le università e gli enti pubblici come il CNR restano pilastri della ricerca di base e traslazionale; gli IRCCS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) e gli ospedali a forte vocazione scientifica uniscono letti e laboratorio, generando progetti clinici e di frontiera; gli istituti privati e i grandi centri di ricerca – spesso con reti internazionali – offrono ambienti altamente competitivi, con infrastrutture avanzate e collaborazioni diffuse. In parallelo, l’industria farmaceutica e biotech mette a disposizione percorsi R&D, medical affairs e, all’estero più che in Italia, opportunità di dottorati svolti direttamente in azienda.
Ogni contesto ha dinamiche e regole diverse: cambiano contratti, percorsi di avanzamento, strumenti a disposizione e attese sui risultati. La scelta dipende da inclinazioni personali, ambizioni e dal tipo di ricerca che si desidera portare avanti.
Le traiettorie evolutive non sono univoche. In molti istituti, dopo i postdoc si può crescere come staff scientist, figura chiave e molto esperta che sostiene il lavoro del laboratorio, coordina persone, gestisce linee di ricerca e infrastrutture, ma che in Italia è ancora poco formalizzata e, talvolta, inquadrata con contratti non pienamente aderenti al ruolo.
L’altra via è la guida di un gruppo come Principal Investigator: qui entrano in gioco capacità manageriali, visione scientifica, abilità nel reperire fondi e nel far crescere le persone.
La carriera ha una forma “a piramide”: molti iniziano, pochi arrivano ai vertici. Esistono anche squilibri di genere lungo la progressione, con una forte presenza femminile nelle fasi iniziali e una minore rappresentanza ai livelli apicali. Stabilizzarsi come ricercatore a lungo termine, senza ambire necessariamente a dirigere un laboratorio, è possibile ma non sempre semplice: è un’esigenza riconosciuta, che richiede politiche e inquadramenti più chiari.
La ricerca vive di progetti e i progetti vivono di finanziamenti. Le fonti sono diverse e spesso complementari: fondi ministeriali e universitari, programmi europei competitivi, bandi di fondazioni private, sostegno di charity e, in alcuni casi, partnership con l’industria.
Saper scrivere un progetto chiaro e convincente è una competenza determinante, così come saper comunicare gli obiettivi a pubblici diversi e curare la disseminazione dei risultati, requisito previsto da molti bandi. In molti istituti, dopo un primo periodo coperto dall’ente, è atteso che il ricercatore si candidi attivamente a più opportunità, mettendo in campo creatività progettuale, rigore metodologico e rete di collaborazioni.
Competenze tecniche e trasversali: dal bancone ai big data
Le competenze “dure” dipendono dal profilo: chi lavora al bancone deve padroneggiare tecniche sperimentali, modelli biologici e protocolli complessi; chi lavora su dati deve muoversi con naturalezza tra programmazione, statistica, bioinformatica e integrazione di dataset eterogenei. In tutti i casi, però, fanno la differenza le competenze trasversali:
Crescendo, entra in gioco anche la dimensione manageriale: guidare persone, bilanci e infrastrutture è parte integrante del lavoro di un PI.
Quasi tutti i ricercatori raccontano di essere partiti dalla curiosità: l’attrazione per il metodo scientifico, il piacere di capire come funzionano le cose, il desiderio di aggiungere un pezzetto di sapere che prima non c’era. Il senso di responsabilità e la “missione” verso la possibilità di fare la differenza nelle cure per i pazienti accompagna questo sentire, soprattutto nella ricerca biomedico e oncologica
Non tutti i progetti cambiano subito la pratica medica, e non tutti i risultati sono positivi; ma anche ciò che “non funziona” fa avanzare la conoscenza, evita duplicazioni, indirizza meglio le risorse. È un lavoro a lungo termine, fatto di tentativi e di scoperte, che richiede investimenti continui, qualità e capacità di scegliere quando insistere e quando ripartire da un’idea diversa. In questa traiettoria la motivazione personale - accanto al sostegno di buoni mentori e di team affiatati - è il filo che permette di tenere insieme fatica quotidiana e impatto finale: trasformare la curiosità in cure migliori.



