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Neuroscienze
Paola Scaccabarozzi
pubblicato il 17-02-2023

Fine vita: curare la mente, non solo il corpo



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Anche i sintomi psichici possono essere gestiti per migliorare la qualità di vita dei malati in fase terminale. Ecco che cosa può fare lo psichiatra

Fine vita: curare la mente, non solo il corpo

Anche la psichiatria svolge un ruolo importante nella gestione delle fasi finali della vita di un malato. Se ne è discusso recentemente in occasione del Congresso della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia tenutosi a Milano, con un focus particolare sull’utilità degli psicofarmaci nella sedazione palliativa.

CHE COS’È LA SEDAZIONE PALLIATIVA

«La sedazione palliativa è un atto terapeutico intenzionale di riduzione della coscienza e dello stato di vigilanza» spiega Luigi Grassi, pioniere della psiconcologia e della psichiatria nelle cure palliative, professore ordinario di Psichiatria, direttore Dipartimento di Neuroscienze e Riabilitazione presso l’Università di Ferrara, direttore dell’Unità Complessa Psichiatria Ospedaliera Universitaria, Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale, AUSL Ferrara. «Lo scopo ultimo è alleviare ed eliminare i sintomi refrattari siano essi fisici o psichici e che minano in maniera sostanziale la qualità di vita del paziente. La sedazione palliativa si applica in un contesto molto ampio e articolato, quello delle cure palliative, il cui obiettivo è migliorare la qualità di vita nella prevenzione e sollievo della sofferenza, tenendo conto della dimensione fisica, psicologica, relazionale e spirituale».

I SINTOMI DA ALLEVIARE NEL FINE VITA

Quali sono i sintomi per i quali si può ricorrere alla sedazione palliativa? Come indicato dalla letteratura nell’ambito delle cure palliative e dalle società scientifiche, come la Associazione Europea di Cure Palliative o la Società Italiana di Cure Palliative, ci sono situazioni, anche se non frequenti (5% dei casi di malati in fase terminale), in cui il dolore diventa refrattario ai trattamenti antalgici. Ci sono situazioni in cui si manifestano altri sintomi che diventano non controllabili, come la dispnea (ovvero la difficoltà a respirare, nel 35-50% dei casi), la nausea e il vomito incoercibili (25%), il delirium, ossia una sindrome caratterizzata da uno stato confusionale associata a disorientamento, l’irrequietezza psico-motoria (20%), l’angoscia psicologica ed esistenziale (0,5-15%) con tutte le sue declinazioni possibili. Si va dalla perdita del senso del valore dalla vita alla sensazione di essere di peso e dipendenza da altri (48%), dall’ansia, al panico e alla paura della morte (33%) fino al desiderio di controllare ossessivamente il tempo che resta da vivere (24%) a un totale senso di abbandono (22%). «Sono queste le situazioni in cui si può fare ricorso alla sedazione palliativa. – prosegue Grassi -. Accade soprattutto nei confronti dei malati affetti da cancro in fase terminale ma anche per coloro che soffrono di malattie neurodegenerative, come ad esempio la Sclerosi laterale amiotrofica, o altre malattie (ad esempio patologie cardiache, altre patologie neurologiche) in fase terminale».

UNA PRECISAZIONE NECESSARIA

La sedazione palliativa non va assolutamente confusa con l’eutanasia, tiene a precisare lo psichiatra: «Diversi sono gli obiettivi, i tipi di farmaci utilizzati e il risultato che si vuole ottenere. Lo scopo della sedazione palliativa è infatti alleviare o eliminare la sofferenza attraverso farmaci scelti per il controllo dei sintomi refrattari e non per provocare la morte. Il risultato finale è il controllo del sintomo refrattario fino all’abolizione della coscienza. La sedazione inoltre viene effettuata nella fase terminale di una patologia organica, a differenza dell’eutanasia, che in alcuni dei Paesi in cui è legale (non in Italia), può essere effettuata anche in situazioni di non terminalità o di patologie non organiche (ad esempio patologie psichiatriche). Diverse sono le molecole usate: benzodiazepine (midazolam) per la sedazione; barbiturici, cloruro di potassio, pancuronio e altri nel contesto della eutanasia o della morte medicalmente assistita. La sedazione palliativa è reversibile e può essere effettuata a vari livelli di profondità di sedazione, a seconda della sintomatologia e dello stato generale di sofferenza del paziente. Inoltre può riguardare un periodo limitato di tempo o essere intermittente in relazione ai bisogni del malato, oppure continua, ossia protratta fino al decesso».

L’ETICA DELLA SEDAZIONE

Effettuare la sedazione palliativa significa seguire principi etici ben precisi e richiede il consenso informato del paziente, quindi con necessità di un dialogo aperto e definito tra équipe di cure palliative e lo stesso paziente. «I presupposti sine qua non sono: una patologia organica in fase avanzata, una malattia progressiva e ingravescente con morte attesa in tempi brevi, la dimostrazione che altri approcci non siano stati utili a ridurre la sofferenza del paziente. Fondamentale è inoltre il coinvolgimento della famiglia. Principi etici imprescindibili sono il rispetto dell’autodeterminazione del malato, il criterio di beneficialità (fare il bene del malato) e giustizia, ossia un equo accesso alle cure e un’equa distribuzione delle limitate risorse».

IL RUOLO DELLO PSICHIATRA

Perché lo psichiatra riveste un ruolo all’interno delle cure palliative? «Lo psichiatra è figura importante nel lavorare in team con i palliativisti, all’interno di una équipe multidisciplinare - conclude Grassi - in cui ogni specialista esercita un ruolo in sinergia con gli altri, con l’obiettivo preciso di garantire la migliore qualità di vita possibile a quello specifico paziente. Il concetto di dolore è da tempo notoriamente considerato in senso totale riguardando certamente il corpo, ma anche le dimensioni psichiche, interpersonali e spirituali e deve essere preso in carico nella sua complessità e globalità. Lo psichiatra ha esperienza nell’utilizzo degli psicofarmaci che vengono usati nell’ambito delle cure palliative e, in particolare, in quello della sedazione. Lo psichiatra può valutare aspetti clinici inerenti possibili disturbi psichici nelle fasi avanzate di malattia, come i disturbi depressivi e può applicare interventi psicoterapeutici nel fine vita. Riveste, inoltre, un ruolo significativo nella gestione della sofferenza che riguarda l’intero nucleo familiare, anche nella prospettiva della perdita del proprio caro e nella elaborazione del lutto». Quello delle terapie palliative è un ambito delicatissimo e imprescindibile che deve sempre più riguardare tutti gli aspetti della cura. Costituisce uno dei momenti più complessi dell’esistenza e richiede una dedizione speciale.

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Paola Scaccabarozzi
Paola Scaccabarozzi

Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.   


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