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Neuroscienze
Fabio Di Todaro
pubblicato il 22-11-2017

Quando serve la chirurgia contro l'epilessia



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L'epilessia richiede il ricorso al bisturi in tre casi su dieci, dopo aver verificato la mancata efficacia di due farmaci. L'intervento non è possibile se l'area epilettogena è troppo estesa: ecco l'ampio ventaglio di opportunità palliative

Quando serve la chirurgia contro l'epilessia

A chi non ha dimestichezza col problema, sembra ancora un qualcosa ai confini della realtà. Il ricorso alla chirurgia per curare l'epilessia, un problema che riguarda poco più di cinquecentomila italiani, è invece un'opportunità consolidata, anche se limitata a una casistica ridotta dei pazienti (tre su dieci). In quali casi il bisturi può essere la soluzione definitiva al disturbo neurologico, che ha come comune denominatore l'insorgenza di episodi con perdita dello stato di coscienza, alterazioni motorie o sensoriali, cadute o stato di assenza? Innanzitutto quando il ricorso ai farmaci non risulta sufficiente a placare le crisi.


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QUANDO SI RICORRE AL BISTURI?

In queste situazioni, come dimostrato in uno stadio pubblicato sul New England Journal of Medicine, l'intervento chirurgico rappresenta l'opportunità per ridurre il problema alla radice. «La chirurgia dell’epilessia è indicata quando l’area epilettogena, che è quella zona del cervello responsabile delle crisi, è circoscritta e la sua asportazione non causa deficit neurologici - afferma Nicola Specchio, responsabile dell'unità di neurochirurgia dell’epilessia all'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma -. Quanto più l’intervento è precoce, tanto più alta è la possibilità che la malattia scompaia del tutto. «Accertata l’idoneità all’approccio chirurgico, è necessario intervenire il prima possibile: in questo modo si riduce il rischio che il bambino riporti danni cerebrali poi trattabili con maggiori difficoltà». Il ricorso al bisturi viene considerato dopo aver verificato la mancata risposta a due diversi farmaci. 

COME RICONOSCERE UNA CRISI EPILETTICA?

IL LUNGO ITER CHE PORTA ALL'INTERVENTO

Non tutte le persone con epilessia possono però essere operate. «L'area epilettogena deve essere unica e stabile - chiarisce Giorgio Lo Russo, direttore della struttura complessa di chirurgia dell'epilessia all'ospedale Niguarda di Milano -. Oggi si può intervenire anche a livello di interi emisferi, ma la chirurgia curativa non è generalmente possibile quando l'area da cui origina il fenomeno epilettico ricade all'interno della corteccia motoria o delle aree visive e del linguaggio». La zona epilettogena può essere asportata (chirurgia resettiva) o disconnessa (chirurgia disconnettiva). Vista la delicatezza dell'intervento, l''iter diagnostico che alla fine porta il paziente in sala operatoria è molto complesso. Gli esami principali, come spiega Vincenzo Esposito, primario dell’unità operativa complessa di neurochirurgia dell’Irccs Neuromed di Pozzilli (Isernia), «sono la risonanza magnetica, con cui si studia la conformazione del cervello alla ricerca di possibili anomalie, la registrazione prolungata video-elettroencefalografica, con cui si studiano le crisi epilettiche documentando in video ciò che succede al paziente contemporaneamente alla registrazione della attività elettrica cerebrale, e lo studio neuropsicologico delle principali funzioni cerebrali». Queste indagini, unite ad altre eventualmente ritenute necessarie caso per caso, sono utili a individuare l'area da cui ha origine la crisi e il profilo di sicurezza dell'intervento. Non stupisce, dunque, che i tassi di complicanze siano molto bassi. «Inferiori al tre per cento», precisa lo specialista. 


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CHIRURGIA PALLIATIVA: IN QUALI CASI?

Come detto, dunque, alcune forme di epilessia possono non rispondere in maniera adeguata ai farmaci e risultare non operabili. Cosa fare, allora, di fronte a situazioni di questo tipo? Esistono diverse opportunità, che ricadono sotto il ventaglio della chirurgia palliativa: la callosotomia (la sezione del corpo calloso impedisce il passaggio delle crisi da un emisfero all'altro, evitando la caduta del paziente), le transezioni subpiali, trattamenti con ultrasuoni focalizzati mediante risonanza magnetica. Per ridurre le convulsioni, quando non possono essere controllate né con i farmaci né con la chirurgia, si è rivelata utile anche l'adozione di una dieta chetogena: un regime alimentare che si fonda sull’impiego di un’alta percentuale di grassi (fino all’80 per cento), anziché di carboidrati e proteine, come fonte principale di energia. Precisa però Lo Russo: «Si tratta di opzioni che possono essere molto costose, come lo stimolatore del nervo vago che arriva a ridurre soltanto del cinquanta per cento le crisi nella metà dei pazienti trattati. Un'utilità può esistere, ma non bisogna considerarle alternative agli interventi curativi che, quando indicati, assicurano la guarigione del paziente».

  

 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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