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Neuroscienze
Serena Zoli
pubblicato il 11-11-2020

Stigma: come affrontare il «veleno» contro le malattie mentali



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Chi soffre di una malattia psichiatrica è spesso «colpevolizzato». Una reazione che aumenta la sofferenza e allontana i pazienti dalle cure

Stigma: come affrontare il «veleno» contro le malattie mentali

Stigma. Chi era costui? Viene naturale rievocare il «Carneade! Chi era costui» di Don Abbondio dinanzi a questa parola così oscura che anche tanti acculturati non capiscono. E che viene sempre abbinata ai discorsi sulle malattie mentali che di tutto avrebbero bisogno, fuorché di oscurità tanti sono i pregiudizi che su di esse gravano. Stigma significa marchio, etichettatura (negativa). Si dice e si scrive che per le malattie psichiatriche bisogna combattere lo stigma che le avvolge e che pesa sui malati. È la condanna sociale, la colpevolizzazione, il sostenere che questi disturbi non hanno rimedio e sono pericolose, e, per chi soffre di questi disturbi come spesso per le loro famiglie significa vergogna, senso di colpa, necessità di isolarsi. O sparire.


Significa negare la dignità di malattia alle malattie mentali, farne molte volte un problema di cattiva volontà quando, per esempio, nella più comune di tutte, la depressione, la prima capacità che si annulla è proprio la forza volontà. Guai a dire a chi ne soffre: «Sforzati». E invece lo si dice  quasi sempre. Non può. Come non si dice a un malato di polmonite: «Dai, respira più forte e regolare, sforzati» o a un malato di cuore di darsi da fare per controllarne il buon funzionamento. Sì, la gravità dei disturbi psichiatrici è al livello delle malattie appena citate, ma non ne viene riconosciuto il peso e la specificità.


NON ESISTE PIU’ LA «PAZZIA»

Se si ammalano i polmoni, se si ammala il cuore, perché non può ammalarsi un organo tanto più complesso come il cervello? E perché non si può compromettere soltanto una sua parte al posto di un coinvolgimento completo che fa comodo riassumere sotto la parola totalizzante di «pazzia». La pazzia, in realtà, è stata districata da tempo in tante distinte malattie: depressione, ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, panico, distimia, anoressia, schizofrenia. Ognuna con una propria diagnosi e con una conseguente terapia. Più o meno efficace, come lo sono le terapie dei problemi fisici. Non sempre curano. Più spesso «trattano». Contengono. Su questo peso aggiuntivo alle malattie del cervello, che spesso tiene i malati lontani dal medico o li portano a troncare le terapie intraprese, abbiamo sentito l’opinione di cinque psichiatri e di altrettanti malati.

 

PREVEDERE LA GUARIGIONE

Stefano Pallanti, professore associato di Psichiatria all’Università di Firenze e docente di psichiatria e scienze del comportamento alla Stanford University (Usa): «Lo stigma è implicito nella parola “mentale” che ghettizza rispetto alle altre sofferenze del corpo. Oggi si parla più di disturbi della connettività, dei diversi modi di funzionamento dei circuiti cerebrali, di come sono collegate le diverse aree. Ci sono barriere reali, per esempio chi prende certi psicofarmaci, è vero, può avere difficoltà a guidare. Ma succede anche che le assicurazioni, scritto in piccolo, neghino rimborsi per queste malattie e che per esempio in una causa di separazione uno dei partner getti davanti al giudice l’accusa: ma lei/lui, è stata/o in cura dallo psichiatra. Una cosa indegna, dunque, colpa, non malattia spesso curabile come un’altra».

Una colpa, secondo l'esperto, risiede però anche nella comunità degli psichiatri. «L'Organizzazione mondiale della Sanità ha raccomandato di parlare di guarigione e di continuare la cura fino alla guarigione. Dunque fare diagnosi precise con prognosi precise, ove possibile. C’è chi ha avuto un episodio di un disturbo mentale vent'anni fa: è da considerare sempre malato? Ma tante altre malattie ritornano, a cominciare dall’influenza. Così, per tutti i pregiudizi diffusi, le persone aspettano di stare molto male per andare dallo psichiatra e spesso, se non si parla di guarigione, si accontentano di un miglioramento, si adattano a stare meno male. Ma i disturbi di cui ci occupiamo non sono come l’Alzheimer, privo di una possibile remissione. La gente, per esempio, non sa che la maggioranza dei tossicodipendenti, e curati, smette».


Altro pregiudizio che pesa «Le benzodiazepine, cioè i tranquillanti, fanno meno paura - conclude Pallanti -. Non di rado li dà anche il farmacista, ma sono dei calmanti temporanei che la persona potrebbe non smettere più di prendere e invece creano più dipendenza». Infine ricordiamo che siamo stati l’ultimo paese in Europa a rimborsare gli antidepressivi Ssri, alleggeriti di disturbi collaterali. Segno che anche dalle istituzioni viene un »rafforzamento dello stigma, si alimenta la ghettizzazione».

 

TANTI MALATI SI CHIUDONO IN CASA

Massimo Biondi, direttore dell'unità di psichiatria e psicofarmacologia del Policlinico Umberto I di Roma e ordinario di psichiatria all’Università La sapienza: «Lo stigma è un punto chiave nel problema delle malattie mentali. È stato al centro di una direttiva dell’Organizzazione Mondiale della Sanità perché lo si combatta, è al centro dell’attività di tante associazioni di pazienti e dei loro famiglie. Ma si tratta di un atteggiamento riconosciuto e su cui si discute. C’è un rifiuto, per esempio, per che chi soffre di depressione e ancor più di depressione bipolare, perché nella fase di mania il malato può avere comportamenti esagerati. Non parliamo poi dei disturbi psicotici (distacco dalla realtà ndr) come la schizofrenia: c’è l’emarginizzazione. Può succedere, come è capitato, che un condominio non voglia tra i suoi inquilini un ragazzo schizofrenico anche se il caso è risolto o è stabile da tempo. Succede che se qualcuno in terapia incontra una nuova fidanzata o fidanzato non parli dei suoi problemi e questo aggrava la sua situazione, ma anche le difficoltà del rapporto».

Lo stigma, secondo l'esperto, esiste anche verso l’epilessia, che in realtà non è un disturbo mentale. «Si tratta di un problema pesante. Tanti malati rimangono chiusi in casa e rifiutano di chiedere aiuto a un medico. Questo perché spesso si dice loro che non possono essere aiutati, che i loro casi sono senza speranza, a differenza di altre malattie. Cosa che, nella maggior parte dei casi, non è vera».

 

UN SISTEMA SANITARIO DISCRIMINATORIO

Andrea Fagiolini, direttore della clinica psichiatrica dell’Università di Siena: «Lo stigma esiste. Ed esiste anche a livello della considerazione che il sistema sanitario ha per la nostra disciplina. C’è stigma perché le risorse allocate - in termini di percentuali del fondo sanitario destinate alla salute mentale - sono assai inferiori rispetto alle esigenze. C’è stigma inoltre perché un paziente a rischio di suicidio è difficilmente considerato come un paziente con un infarto in corso. «Non esiste uno specifico codice rosso per una malattia psichiatrica. Perché un paziente gravemente depresso è difficilmente considerato come un malato uscito da una chirurgia oncologica? Perché un paziente schizofrenico è difficilmente considerato come un paziente trapiantato? Eppure sono situazioni paragonibili, da un punto di vista medico. Abbiamo fatto tanto progressi e siamo grati ai colleghi che ci hanno aiutato. Ma la nostra disciplina è sempre lontana dall’avere il livello di attenzione, considerazione e risorse che sarebbero necessarie».

 

ADOLESCENTI A RISCHIO BULLISMO

Giovanni Migliarese è primario di psichiatria all’ospedale di Vigevano e specialista dell’adolescenza. Lo stigma, a suo avviso, sta in diversi punti. «La gente ha più paura delle malattie psichiatriche che di un tumore. Le malattie psichiatriche vengono messe tutte in un calderone, senza distinzione. E viviamo in un immaginario collettivo nato dai film in cui lo psichiatra viene sempre descritto come un sadico o una macchietta. Detto ciò, ci sono buone risposte per molte malattie, i pazienti non vanno in giro sedati con gli occhi fissi, cosa che i moderni farmaci non fanno. Ma non ci sono stati investimenti educativi».


Si sono mossi a difendere i buoni esiti degli psicofarmaci personaggi come l’influencer Chiara Ferragni e Vasco Rossi e un po’ ha contato. «Non si investe abbastanza sui centri pubblici come i centri di salute mentale e i servizi per le tossicodipendenze per renderli curati anche negli arredi, per alleviare lo stigma che pesa molto su di loro. O per fare passare l’immagine della psichiatria come una branca della medicina al pari delle altre o che lavora insieme ad altre branche come la cardiologia e l’immunologia». Alcuni disturbi mentali, d'altra parte, sono sistemici. Coinvolgono cioè tutto il corpo. «Occorre difendere le terapie curative, far sapere che si possono avere buoni risultati del 70 per cento in dati casi - prosegue Migliarese -. In tutta la medicina, quante sono le terapie che guariscono del tutto? A parte gli antibiotici e pochi altri farmaci, quali?


Quanto agli adolescenti, la loro età li porta a considerarsi sempre sani. Tendono a non voler curarsi: ma non soltanto dalle malattie psichiatriche. «Hanno paura del medico degli adulti: degli psichiatri, poi…E se anche un ragazzo accetta di andarci e curarsi, nel momento in cui ne parla con i  coetanei rischia di essere bullizzato. Per questo andiamo nelle scuole per sensibilizzare i più giovani, a riguardi. Spesso vengono fuori discorsi da cui si capisce che gli psicofarmaci farebbero diventare degli zombie, cosa che i farmaci attuali non fanno assolutamente. Inoltre non di rado riceviamo tante domande sui manicomi, che sono chiusi da 40 anni…».

 

I BAMBINI AVVIATI ALLE CURE IN RITARDO

Paola De Rose è neuropsichiatra infantile e lavora all’Ospedale pediatrico del Bambin Gesù di Roma: «Lo stigma nasce dal fare associazioni sbagliate sulle malattie mentali, è ignoranza, non conoscenza della realtà vera. Quello che produce nell’infanzia è vergogna per i genitori e per i bambini. Una colpa per il padre e per la madre».


Per l’autismo, quanto sono state colpevolizzate le mamme, come causa del problema. E non è così, ovviamente. «Questa condanna sociale e visione distorta delle patologie psichiatriche e delle loro cure creano solitudine per le famiglie e per i bambini. C’è mancanza di un supporto analogo a quello che si registra nei confronti di malattie. E appena i ragazzi crescono e diventano adolescenti, lo stigma sociale si abbatte su di loro con il bullismo da parte dei compagni. Una situazione molto dolorosa».


Il contrario dello stigma è la conoscenza. Se il cervello, invece di assorbire le associazioni distorte sui disturbi psichiatrici, è consapevole dei reali collegamenti, siamo già di fronte a una cura. Occorre pertanto informare bene i genitori e i bambini. «Le neuroscienze hanno fatto molti più passi avanti di quanto comunemente si pensa - prosegue De Rose -. Bisogna diffondere conoscenza a cominciare dalla scuola, dai social, dai vari canali informativi. L’ignoranza e la paura rallenta il venire a galla dei problemi. A volte una mamma si accorge già a un anno che il suo bambino ha qualcosa che non va, ma aspetta, spera che passi, così viene da noi quando il piccolo ha tre anni: e tante cose utili si potevano fare prima. Questo è il danno. I genitori scelgono l’isolamento, non escono più a cena con gli altri, non frequentano gli amici, stanno chiusi col loro bambino. E questo per colpa dello stigma».

 

PARLA CHI SOFFRE DI UN DISTURBO PSICHIATRICO

I racconti di 5 malati (i nomi sono di fantasia):


MARTA
: «Sono terrorizzata che in ufficio vengano a sapere che mi curo per la depressione. I capi diffiderebbero di me e cercherebbero di emarginarmi, ma anche dai colleghi e pure le colleghe riceverei frecciate o atti di comprensione più fastidiosi. Ho letto questa vicenda successa negli Stati Uniti, ma sicuramente possibile anche da noi. Per un posto di lavoro, c’erano due candidati. Uno da ragazzo aveva fatto dei furtarelli e scontato anche un po’ di prigione. L’altro confessò di essere stato in cura per una depressione. Chi hanno preso? Il primo. Hanno creduto che ormai avesse messo la testa a posto, mentre col secondo come si faceva a sapere se non avrebbe avuto un’altra crisi? Il problema è la prognosi. Con le malattie mentali non si parla di guarigione, è come se sulle nostre cartelle mediche ci fosse scritto: fine pena mai. Come per gli ergastolani».

 

GIANCARLO: «Io prendo tre psicofarmaci e sto bene da tempo, in passato sono stato anche violento, almeno in casa, il mio è disturbo ossessivo-compulsivo più qualcos’altro. Ho una ragazza, a cui non ho detto nulla della mia malattia. Ma fino a quando potrò tacere? E per quando andiamo via qualche giorno mi sono procurato delle scatole di integratori e antinfluenzali in cui nascondere le mie medicine, che comunque cerco sempre di prendere lontano da lei. Ho paura che mi lascerebbe se sapesse tutto di me. E io a lei ci tengo».

 

FRANCO: «Ho 43 anni e mi curo da anni per disturbi psichiatrici, non ho voglia di dire quali. Mi vergogno, guai se altri sapessero. Così le prescrizioni dello psichiatra non le passo da trascrivere al medico di base che le renderebbe gratuite, no, perché lui mi conosce e potrebbe parlare. Per lo stesso motivo vado a comprare le medicine in farmacie lontane da casa, dove nessuno mi conosce. E, naturalmente, le pago a prezzo pieno. Alcune costano tanto».

 

MARIANGELA: «Ho fatto quello che fanno in tanti. Dopo aver girato un paio di medici senza risultati, finalmente col terzo ho avuto psicofarmaci che mi hanno fatto stare bene. Lui mi aveva avvertito che avrei dovuto seguire la cura alcuni mesi anche dopo essere stata bene perché era il periodo di più facile ricaduta. Io, invece, dopo un po’ che ero tornata a sentirmi me stessa e che il sole brillava anche per me, ho buttato via tutto. Lo facciamo in tanti. Col proposito: ora devo farcela da sola. Mi sembrava più giusto, più morale. Metterci il mio sforzo personale. E invece, in che inferno sono ricaduta! Tutto il male è tornato, una sofferenza straziante. E per un pezzo non sono voluta tornare dallo psichiatra. In fondo non volevo arrendermi al fatto che la mia era una malattia e non un problema di forza di volontà. Una malattia diversa, ma anche uguale alle altre».

 

DORIANA: «Io ho fatto l’elettroshock. Ma è più corretto chiamarlo terapia elettroconvulsivante, perché già la parola sembra un pugno. E non lo è. Io le devo la vita. Ma vallo a raccontare: ti guardano come un animale strano e forse pericoloso. Su questa terapia si concentra il massimo dei pregiudizi circa le malattie mentali. Sembra che tutti, ma proprio tutti, anche quelli non ancora nati allora, abbiano visto Qualcuno volò sul nido del cuculo in cui l’elettroshock veniva usato sul (tra l’altro finto) malato a scopo di punizione, quindi come “arma”, mostrandolo come veniva praticato decenni e decenni fa (il libro da cui fu tratto il film era del 1962), una pratica violenta in cui la contrazione dei muscoli poteva anche spezzare un osso. Ma tutta la medicina era più dura una volta.


Ora - e da molto tempo - ti mettono in anestesia generale per alcuni minuti e ti danno sostanze miorilassanti. Per cui non c’è contrazione muscolare. Anche il voltaggio della scossa elettrica è molto molto più basso. Insomma, non senti niente, dopo pochi minuti ti alzi, aspetti un quarto d’ora, dopo puoi uscire. Ah, ecco, si fa in day hospital.

Per me, resistente agli psicofarmaci, erano state programmate otto sedute, invece con la seconda sono risorta. Pochi minuti prima disperata, poco dopo felice. Questo è il miracolo che la terapia elettroconvulsivante può produrre. La gente la teme, ma gli psichiatri mi hanno detto che essendo quasi priva di effetti collaterali e spesso di rapido effetto è la pratica adatta per problemi psichiatrici delle donne in gravidanza e degli anziani. Tutto il contrario di quello che comunemente si pensa».


Serena Zoli
Serena Zoli

Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.


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