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Oncologia
Donatella Barus
pubblicato il 09-03-2021

«Sostegno ai giovani e alle donne o la ricerca italiana perde due volte»



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Elisabetta Dejana, fra i massimi esperti di vascolarizzazione dei tumori, parla di donne, ricerca e giovani. Il 25 marzo interverrà alla Cerimonia dei Grant

«Sostegno ai giovani e alle donne o la ricerca italiana perde due volte»

Ricerca scientifica, pandemia, donne e disparità di genere nella scienza, fuga dei cervelli. Di tutto questo abbiamo parlato con Elisabetta Dejana, biologa cellulare, ricercatrice, fra i massimi esperti dei meccanismi di angiogenesi tumorale. Autrice di oltre 400 pubblicazioni scientifiche, dirige il programma di ricerca sulla vascolarizzazione del cancro presso IFOM (Istituto Firc di Oncologia molecolare, a Milano) e guida un gruppo di ricerca presso l’Università di Uppsala, in Svezia.

La professoressa Dejana interverrà alla cerimonia di premiazione dei 133 ricercatori finanziati da Fondazione Umberto Veronesi nel 2021, prevista per il 25 marzo. Confermando una tendenza ricorrente negli ultimi anni, il 70 per cento dei borsisti selezionati e premiati quel giorno sarà composta da donne.

 

DONNE E RICERCA

Professoressa, parliamo di donne e ricerca, di disparità di genere. Possiamo dire che nel mondo della scienza ci sia una situazione meno arretrata rispetto ad altri settori del lavoro e della società?

In parte sì. In tanti anni che faccio questo mestiere ho visto grandi miglioramenti. Ho visto migliorare la qualità della ricerca fatta dalle donne, il livello in università. Sono tante donne in gamba, motivate, che rispetto al passato non si sentono bloccate dal ruolo sociale, dall’essere madri ad esempio. Il lavoro di ricerca è coinvolgente, spesso non esistono il giorno e la notte, si va ansiose a controllare un esperimento anche alle 7 del mattino.

Dimensione privata e professionale che stridono, un classico dell’emancipazione femminile. Che fare?

Ad esempio partire dagli aspetti più immediati e concreti nella vita delle persone, come fornire servizi per la famiglia. Ci sono istituti di ricerca, come quello in cui lavoro, e università che hanno dei nidi interni per i figli dei dipendenti, in Svezia vedo servizi di trasporto dei bambini da casa a scuola e viceversa molto efficienti. Sembrano piccole cose ma sono un aiuto fondamentale, anche in periodi difficili come questa pandemia. Un’altra cosa che succede è che nella carriera sono ancora le donne a seguire il loro compagno e non il contrario. Qualche tempo fa The Embo Journal (una rivista scientifica peer-reviewed nell’ambito della biologia molecolare, ndr) ha pubblicato i risultati di una indagine che mostrava come uomini e donne partissero in condizioni di parità, in molti casi con performance migliori per le donne, e a mano a mano che procedevano nella carriera, fino al dottorato ed oltre, gli uomini avevano meno impegni ed erano più liberi di concentrarsi sul lavoro, mente aumentava la quota di donne che compiva scelte riduttive, in termini di carriera, per cercare di conciliare il piano personale e quello professionale. Alla base di queste differenze ci sono elementi culturali e sociali profondi (e tengo a precisare che la mia non è una critica, ma un'analisi).

Accade in molti settori della società e del lavoro, no?

Sì, ed è così anche in altri paesi. Immaginate una piramide: alla base partono in molte, agguerrite, competitive, molto brave, ma poi lentamente, salendo verso il vertice, si riduce il numero di donne che possono fare questo mestiere. In Italia ci sono state politiche poco efficaci a sostegno della famiglia. È un problema antico e siamo ancora fermi alle nonne e ai nonni per risolvere tutto. Si può fare molto di più, e questo porterebbe maggiore ricchezza al paese.

 

AI GIOVANI RICERCATORI SERVONO PROSPETTIVE 

Stiamo sprecando risorse?

Sì. Quando è stata stilata la lista dei vincitori dell’European Research Council starting grant, gli italiani sono risultati secondi in Europa. Questo smentisce i luoghi comuni sulla nostra scuola: non è per niente male, assolutamente. Il problema è che in mancanza di prospettive di carriera questi ragazzi se ne vanno. Non è tanto il salario immediato, a mancare, ma è la prospettiva, il riconoscimento del valore della propria ricerca a partire dalle università. Perdiamo ragazze e ragazzi capaci, persone che possono competere a livello europeo e mondiale. E così ci dissanguiamo.

In che senso?

Consideriamo che ogni ragazzo alla fine del dottorato è costato allo stato italiano intorno ai 140.000 euro. Se se ne va in un altro paese perché vede prospettive migliori, da un lato perdiamo una persona valida e dall’altro perdiamo un investimento compiuto. Stiamo regalando donne e uomini preparati a paesi che in qualche modo sono nostri competitori. E ci perdiamo due volte.

Il che è un po’ quello che accade lasciando spegnere la potenzialità professionale di tante donne. Ma cambiamo argomento.

 

RICERCA SENZA CONFINI

Professoressa Dejana, dal suo punto di osservazione qual è stato l’impatto della pandemia sullo stato della ricerca in ambito biomedico?

Abbiamo assistito ad una forte concentrazione delle risorse e dell’impegno sui temi correlati alla pandemia, naturalmente. E questo, se è pienamente comprensibile, può non essere del tutto positivo. Perché la scienza ha bisogno di libertà e di scambio con discipline che possono sembrare apparentemente lontane e che invece possono dare nuove idee. Fra gli aspetti negativi c’è ad esempio il blocco del progetto Erasmus, che invece aveva dato risultati ottimi in Europa: un valore importante anche per creare coesione fra nazioni diverse. Niente come i giovani che escono dai confini, che imparano a lavorare nei laboratori, che vivono insieme e sperimentano il lavoro in un paese diverso dà valore aggiunto alla ricerca. Io vengo da una città bella ma di provincia, ed esiste anche quella che io chiamo la "provincia mentale": fai fatica ad andare via, ad esporti. Io non ho figli, ma se li avessi direi loro di andare, uscire dalle quattro mura del laboratorio e anche dal contesto nazionale, guardare cosa fanno gli altri.

 

L'EFFETTO DELLA PANDEMIA

Però non vi siete fermati, il lavoro è andato avanti anche durante l'emergenza Covid-19.

Non ci siamo fermati, ma abbiamo rallentato. La pandemia ha colpito duramente, ci sono molte vittime, molte persone che hanno sofferto e che soffrono. C'è stata una fatica materiale ed emotiva particolare nel lavoro.

 

"AFFAMARE I TUMORI": A CHE PUNTO SIAMO?

Ci racconta a che punto è la ricerca sull'angiogenesi tumorale?

L'angiogenesi sembrava un'idea semplice e poi si è capito che è, invece, molto complessa. Semplificando, si tratta dell’idea di “affamare i tumori” intervenendo sulla vascolarizzazione dei tessuti che li nutre e che permette loro di crescere e proliferare. Ci si avvicina sempre di più all'obiettivo finale, quindi alla possibilità di ridurre la proliferazione e la metastatizzazione delle cellule tumorali, in maniera significativa. Si è vinta la battaglia? No, in molti casi purtroppo non c'è risposta, i farmaci antiangiogenesi non sempre funzionano, non in tutti i tumori. In alcuni casi, invece c'è un miglioramento e un allungamento della vita dei pazienti che è considerevole, ma che non porta alla guarigione. Non ci siamo ancora, ad essere onesti, anche se si fanno molti sforzi e ci sono dati positivi.

 

LA RICERCA D'AVANGUARDIA SUI TUMORI CEREBRALI

Qualche esempio?

Stiamo lavorando sul glioblastoma, un tumore cerebrale ancora oggi estremamente difficile da curare, e su un tumore cerebrali diffuso nei bambini, il medulloblastoma, che ti spezza il cuore perché colpisce anche piccoli magari di tre anni o quattro anni, che si trovano ad affrontare una malattia durissima e terapie impegnative. Si è visto che uno dei problemi è la stabilità dei vasi, che in questo tipo di tumore cerebrale diventano slabbrati, fragili e da cui derivano sintomi pesanti come dolore, paralisi, emorragie cerebrali. Stiamo studiando la possibilità di normalizzare la vascolarizzazione del tumore per limitare l'invasione delle cellule tumorali nello stroma del cervello. Un altro aspetto su cui stiamo lavorando adesso, molto intensamente, è il fatto che esistono similitudini straordinarie fra le alterazioni dei vasi nel glioblastoma e in patologie rare, come i cavernomi cerebrali, malformazioni di tipo benigno. Questo ci permette di isolare e studiare le cellule cerebrali, di vedere a quali farmaci rispondono e portarci anche ad applicazioni terapeutiche importanti. E ci insegna anche altro.

 

IL VALORE DELLA CONTAMINAZIONE

Che cosa?

Che spesso bisogna guardare ad altre discipline: abbiamo imparato moltissimo dalla fisica, dalla biostatistica ad esempio. La combinazione di diversi tipi di discipline è quanto mai fruttifera, e queste sinergie ci possono portare davvero molto avanti.

Donatella Barus
Donatella Barus

Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.


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