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Oncologia
Caterina Fazion
pubblicato il 09-02-2023

"Voglio essere un koala"



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Anna a soli quattro anni riceve una diagnosi di leucemia. Quando perde tutti i capelli dice a mamma Daniela: “non voglio più essere una principessa. Voglio essere un koala”. Questa è la sua storia

"Voglio essere un koala"

Anna ha quattro anni compiuti da poco quando rinuncia al suo amato ciuccio, che decide di lasciare a Babbo Natale. Mamma Daniela e papà Davide non sanno proprio come reagirà a questo cambiamento, ma decidono di provare.

Di ritorno dalle vacanze natalizie Anna ha qualche linea di febbre. “Sarà stanchezza, o un po’ di influenza”, pensa la mamma. Ma non è tutto: la bambina è molto agitata, durante la notte piange e mette continuamente le mani in bocca, scuotendole. Sarà la mancanza del ciuccio? Forse, ma la pediatra nota un pallore molto accentuato che meriterebbe qualche accertamento.

È un venerdì sera di inizio gennaio 2020 quando Daniela decide di recarsi all’ospedale di Alessandria per cercare una spiegazione ai continui lamenti di Anna che, nemmeno con il ciuccio, si placano. Alla bambina, che risulta disidratata, viene immediatamente fatta una flebo; per avere delle risposte, però, occorre aspettare l’indomani.

 

LA DIAGNOSI

«È stata una notte terribile, dominata dall’angoscia», ricorda Daniela. «La mattina successiva, visti i valori di emoglobina molto bassi, le hanno fatto una trasfusione. I medici, prendendo da parte me e mio marito, ci hanno comunicato che, per loro, si trattava di leucemia. È stato tutto velocissimo. L’irrequietezza di Anna era legata a forti dolori ossei, e nulla aveva a che vedere con l’abbandono del ciuccio. Ci hanno poi detto che i tumori pediatrici sono curabili nell’80% dei casi e che, anche grazie alla diagnosi tempestiva, avremmo dovuto essere fiduciosi. Io speravo fosse solo un sospetto, forse con accertamenti ulteriori ci avrebbero detto che si erano sbagliati. Ero in piena negazione, non riuscivo ad accettare che stesse succedendo a mia figlia ed ero anche certa che, se fosse stato davvero così, non avrei mai trovato la forza per affrontare quella situazione. Mi sbagliavo, e anche di grosso. Mi è bastato andare a trovare Anna nella sua stanza per capire che, da mamma, dovevo fare quello che nessun altro avrebbe potuto fare. È nata in me una forza che non pensavo di poter avere».

 

LA PRESA IN CARICO

Questa forza Daniela ha dovuto tenersela stretta, non solo per Anna, ma anche per Pietro, il suo primogenito, che all’epoca aveva nove anni. In cuor suo, però, era convinta che all'Ospedale Regina Margherita di Torino, dove avrebbero trasferito Anna a breve, sarebbe emerso che si trattava di un falso allarme. Durante il tragitto in ambulanza, leggendo la cartella clinica, ha dovuto ricredersi. Non era un sospetto, ma una certezza. “Diagnosi: leucemia linfoblastica acuta di tipo B”.

«Lì ho capito che l’approccio doveva essere diverso, ma è stata una situazione molto dura da accettare per me», ammette Daniela. «Quando attraversi una porta con sopra scritto oncoematologia pediatrica e quella sulla barella è tua figlia si prova una sensazione di vuoto terrificante. Vuoto e paura. Poi in realtà non è così: oltre quella porta spaventosa ci sono medici, infermieri, OSS e volontari in grado di sostenere le famiglie come la nostra grazie alla loro esperienza e vocazione. Sì, vocazione, perché riuscire a respirare tutti i giorni quella sofferenza è davvero complesso. Nel momento in cui il dottor Vallero e le dottoresse Barisone e Biasin ci hanno accolti ci siamo subito sentiti parte di una famiglia, particolare, ma comunque una bella famiglia. Di grande aiuto è stata la professoressa Franca Fagioli, direttore del Dipartimento Patologia e cura del bambino all'ospedale Regina Margherita, che con poche semplici parole è riuscita a farmi accettare quello che ci stava succedendo. “L’obiettivo è la guarigione, per tutti”, mi ha detto. Questa frase ha fatto luce nei momenti più bui del nostro percorso».

 

AFFRONTARE LA MALATTIA PASSO PASSO

Davide ascolta la moglie, che a quanto posso constatare ha una memoria impeccabile, raccontare la loro esperienza. Ma se l’amore per Anna e Pietro è lo stesso e l’obiettivo di guarigione comune, diverso è stato l’approccio per affrontare la situazione.

«Personalmente ho avuto un'accettazione immediata – racconta Davide – ero predisposto ad affrontare passo a passo quello che, imprevedibilmente, sarebbe venuto e che, come spesso ci hanno ripetuto, non sarebbe stato una passeggiata. Da subito ho avuto estrema fiducia in Dio, e senso di sicurezza nei mezzi medici e nell'apparato che ci circondava, dove le persone coinvolte erano sempre pronte a darci un messaggio positivo di speranza. Il mio è stato un approccio abbastanza razionale, molto concreto, ero deciso ad affrontare un gradino alla volta fino ad arrivare all’obiettivo, senza pormi grosse paure né false preoccupazioni, ma riadattandomi ogni volta in base alle diverse situazioni. Sul lungo periodo, però, l’effetto psicologico si è fatto sentire. Nell’immediato queste situazioni si affrontano, ma dopo qualche tempo ti accorgi che l’ansia e la paura che Anna possa manifestare qualche segno o sintomo sospetto, tornano. Sto sempre in campana, ma penso sia abbastanza normale».

 

STRALCI DI NORMALITÀ

A fine febbraio 2020 in Italia arriva il Covid, un paio di mesi dopo la diagnosi che ha travolto Anna e la sua famiglia. Loro però, avevano già anticipato il lockdown, il distanziamento sociale, l’uso della mascherina e la disinfezione delle mani: Anna era immunocompromessa, e come tale andava protetta, anche grazie al comportamento responsabile delle persone a lei vicine. Il Covid, purtroppo, ha tagliato fuori dagli ospedali molte figure fondamentali per il benessere delle famiglie, come i volontari, abituati a far divertire i piccoli in corsia e ad alleviare le giornate dei genitori anche solo con un caffè o una breve chiacchierata. I genitori, inoltre, potevano entrare solo singolarmente, costringendo uno dei due, spesso il papà, ad essere momentaneamente accantonato, almeno in parte, dal percorso di cura del proprio bambino.

«Anche in questa situazione abbiamo cercato di trovare il lato positivo», prosegue Daniela. «Abitando a un’oretta dall’ospedale, abbiamo deciso di rinunciare alla meravigliosa possibilità offerta dall’Associazione UGI di alloggiare a un passo dalla struttura ospedaliera. Quando Anna non era ricoverata, ma faceva le terapie in day hospital, tutte le sere tornavamo a casa da Pietro e dal papà. In questo modo abbiamo cercato di equilibrare questa delicata situazione, aggravata dalla presenza del Covid: una volta a casa Anna passava molto tempo con il papà, anche solo guardando un po’ di tv insieme sul divano, mentre io potevo dedicare attenzioni al mio primogenito. Tanti chilometri e tanta benzina, ma, così facendo, i nostri figli potevano stare un po’ insieme all’aria aperta e Anna, anche con il suo camminare incerto, poteva portare un po’ di luce e normalità nelle sue giornate. E poi abbiamo disegnato tantissimo, passione che rimane ancora. Colorare, disegnare e dipingere è stato davvero di grande aiuto perché, purtroppo, dopo un po' di tempo rinchiusi in una stanza, soprattutto senza i preziosissimi volontari, la fantasia scarseggia».

 

I PROGRESSI DELLA RICERCA

Dalle parole di Daniela non traspare solo riconoscenza verso chi ha saputo prendersi cura al meglio della sua Anna, ma anche tanta consapevolezza. «Ci siamo trovati più volte a pensare di essere molto fortunati. Per cominciare ci troviamo in un Paese dove ci si può curare. In ospedale ho avuto modo di incontrare molti bambini stranieri che nel loro paese non avrebbero potuto essere curati e sono quindi stati costretti a venire in Italia a cercare cure e speranza, lontani dalla propria casa, circondati da persone che parlano una lingua straniera. E poi la malattia di Anna, per quanto molto seria, dà molte speranze di guarigione grazie agli enormi passi avanti messi a punto dalla ricerca scientifica. Anna, ad esempio, è stata curata con un protocollo AIEOP 2017 che nel 2020 era il più aggiornato. Il vantaggio è quello di poter essere trattati con farmaci chemioterapici efficaci, ma che diano anche il minor numero possibile di effetti collaterali».

 

LA MALATTIA COME OPPORTUNITÀ

Mentre parlo con Davide e Daniela percepisco la presenza di Anna che si aggira per casa organizzando una misteriosa caccia al tesoro, senza però farsi inquadrare dalla telecamera, almeno per il momento. I genitori parlano serenamente, anche davanti alla bambina. La sensazione è quella che con la leucemia che ha colpito Anna abbiano fatto pace, per davvero, tutti quanti.

«Un evento così pesante, preoccupante e spaventoso come una malattia del genere, può rappresentare un'opportunità di conoscere nuove realtà, ma solamente se si riesce a non viverla come una punizione o una mera sciagura. Non siamo ipocriti, è chiaro che ci sono opportunità decisamente più simpatiche, ma questo genere di malattie rappresentano un terremoto per le famiglie, alla fine del quale si ricostruisce tutto. Molti tasselli non andranno più al posto di prima e a cambiare saranno le priorità: finalmente si possono aprire gli occhi su aspetti della vita fino ad allora non considerati sufficientemente importanti. Inoltre, per noi è stata un'opportunità per vedere quanto amore e quanta devozione possono essere manifestati non solo da parte di amici e familiari, ma anche da chi cura e perfino da sconosciuti che ci hanno teso la mano in maniera inaspettata e decisamente confortante. Non dimentichiamo i volontari delle diverse associazioni, a partire da UGI, ma non solo. Vivendo in prima persona “il quinto piano” dell’ospedale Regina Margherita, dove si trova l’oncoematologia pediatrica, si può davvero comprendere cosa voglia dire farne parte: oltre alla paura e alla preoccupazione, lì si fa largo la speranza e si riesce a vivere anche qualche momento di spensieratezza, sia per noi genitori sia per i nostri bambini e ragazzi».

 

LA FORZA DI ANNA

Quando Anna decide di farsi vedere mi saluta timida, ma molto sorridente attraverso lo schermo del computer. Oggi ha sette anni e frequenta la seconda elementare. Noto che in testa ha due fermagli a forma di farfalla, uno rosa e uno giallo, che raccolgono parzialmente i capelli lunghi e biondi. Quando le faccio i complimenti per i suoi bellissimi fermacapelli Anna si limita a sorridere, un po’ vergognosa e un po’ compiaciuta. Per mamma Daniela, invece, inizia un ricordo doloroso, a tratti nostalgico, colmo di sollievo.

«Anna ha avuto una forza incredibile. Una volta che i dottori le hanno spiegato, con parole semplici, la sua malattia, si è mostrata molto collaborativa e ha sempre fatto quanto le veniva richiesto: non ha mai rifiutato le cure o fatto storie per un prelievo del sangue. Con il primo ciclo di chemioterapia i capelli erano diventati un po’ più radi, ma non li aveva persi. Consci del fatto che con il secondo ciclo di chemioterapia sarebbero caduti tutti, abbiamo provato a fare un taglio corto per abituarla, visto che li aveva lunghissimi, mai tagliati dalla nascita. In quel periodo spesso la immergevo nell’acqua tiepida per lenire le piaghe provocate dai farmaci e per rilassarla un po’, vista l’azione del cortisone che, oltre a gonfiare, può intervenire a livello psicologico portando a nervosismo e sbalzi di umore. L’unico momento in cui l’ho vista davvero abbattuta è stato proprio pochi giorni dopo l’inizio del secondo ciclo di chemioterapia: Anna ormai aveva perso quasi tutti i capelli, le restava solo un ciuffo sul davanti che continuava comunque a voler lavare con shampoo e balsamo. In quell’occasione si è vista allo specchio e si è resa conto di non avere più capelli. “Voglio stare sola” è riuscita solo a dirmi».

 

KUALA, UN AMICO FIDATO

Daniela continua il suo ricordo «Dopo qualche giorno in cui Anna, grazie a foulard e asciugamani, ha finto di avere ancora i capelli lunghi e biondi come quelli di Elsa di Frozen, e come i suoi del resto, fino a poco prima, ha deciso che non le importava più nulla. “Non voglio più essere una principessa. Voglio essere un koala”».

Mentre sto per chiedere a Daniela il perché di questa strana affermazione, è proprio Anna a spiegarmelo, anzi, a mostrarmelo. La bambina torna a sedersi sulle ginocchia della mamma davanti alla telecamera del computer, in mano ha un koala di pezza. Il suo nome è Kuala, e si vede che ne ha passate tante. Daniela mi conferma che sono inseparabili fin dalla nascita di Anna, quando era l’unica cosa che, se poggiata sulla sua schiena, riusciva a calmarla e a farla dormire. Anche nel periodo della malattia si è dimostrato un vero amico, fedele e sempre presente per infonderle coraggio, anche in sala operatoria quando ad Anna è stato posizionato il catetere venoso centrale, attraverso cui far passare i farmaci. Per lei è una presenza fondamentale e irrinunciabile e infatti ha un unico grande timore: che la mamma glielo butti via una volta cresciuta. Decido di toglierle questa preoccupazione mostrandole il mio bambolotto Antonio, che mi fa compagnia da 29 anni e che mai nessuno in famiglia ha pensato di buttare via. Anna è sollevata e può tornare a cuor leggero a preparare la sua caccia al tesoro.

 

PICCOLI OBIETTIVI INTERMEDI

L’obiettivo a cui puntare mentre si affronta una malattia come quella di Anna, al termine dei due anni di terapia, è sempre la guarigione, ma Daniela mi spiega come loro si siano sempre posti obiettivi intermedi, terapeutici e non, concedendosi anche qualche piccolo sgarro.

«Oltre a seguire l’evoluzione delle terapie passo a passo, abbiamo cercato di giocarcela tutta, nei limiti della sicurezza, naturalmente», mi spiega Daniela. «Per tutelare la salute di Anna, tra le altre cose erano previste restrizioni alimentari e divieto di accarezzare cani o gatti. Noi abbiamo adottato qualche piccolo escamotage per non trovarci a dire sempre e solo NO: dal vedere gli animali attraverso un vetro, a mangiare le fragole sbucciate. La soddisfazione più grande, però, è stata andare al mare tutti insieme tra un ciclo di chemio e l’altro, solo dopo aver ricevuto l’approvazione dei medici».

 

LA FINE DELLE TERAPIE

Dopo il secondo ciclo di chemio, che ha fatto perdere completamente i capelli ad Anna, come da protocollo si passa alla fase di mantenimento dove piano piano ci si avvia verso la normalità: i dosaggi calano, il viso di sgonfia e i capelli ricrescono.

«Finita la terapia - riflette Daniela - si ha la sensazione di volare senza paracadute e le giornate, dopo due anni scanditi dall’assunzione di farmaci, sembrano vuote, come se mancasse qualcosa. Dopodiché subentra la paura: qualunque dolore o malanno possa avere Anna è per noi fonte di forte preoccupazione, e probabilmente lo sarà per tutto il periodo di follow up, volto a monitorare che non ci siano recidive. Il nostro personalissimo modo per segnare la fine delle terapie è stato allargare la famiglia: adesso siamo in cinque, oltre a me, mio marito, Anna e Pietro, si è unita a noi Dakota, un cagnolino di poco più di un anno, che Anna può finalmente accarezzare».

È proprio con Dakota che torna a farsi vedere Anna: è ora di iniziare la caccia al tesoro.

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Caterina Fazion
Caterina Fazion

Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile


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