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Pediatria
Paola Scaccabarozzi
pubblicato il 24-03-2023

La cicatrice francese e l'autolesionismo nei ragazzi



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L'ultima triste e pericolosa sfida social è la "cicatrice francese". Ma che cos'è l'autolesionismo adolescenziale e che cosa rivela dei nostri ragazzi?

La cicatrice francese e l'autolesionismo nei ragazzi

L’Antitrust, ossia l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ha avviato un'istruttoria nei confronti della società irlandese TikTok Technology Limited, attiva nel settore dei social media attraverso la sua omonima piattaforma. Nello specifico, l’Autorità ha deciso di avviare l'istruttoria a seguito della presenza su TikTok di numerosi video di ragazzi che reiterano, diffondono e illustrano concretamente comportamenti autolesionisti, a cominciare dalla triste e pericolosa sfida della "cicatrice francese".

 

CHE COS’È LA SFIDA DELLA CICATRICE FRANCESE

Si tratta di stringere continuamente e con violenza la pelle delle guance affinché appaiano ematomi e macchie rosse in corrispondenza degli zigomi. La nuova tendenza diffusa con l'hashtag #cicatrice, arriva dalla Francia, da cui il nome di “cicatrice francese”. Ma come spesso accade con i contenuti virali, la pratica si è diffusa velocemente in tutto il mondo, Italia compresa, «dove ha ottenuto più di 3 milioni di visualizzazioni», dichiara la dottoressa Maria Pontillo, psicoterapeuta, dirigente Psicologo presso l’Unità di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e professoressa a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «È la spia di un fenomeno grave e punta dell’iceberg di tutto un universo, sfumato e complesso, di atti di autolesionismo tra gli adolescenti (13-18 anni) e anche tra i ragazzini di 10-11 anni».

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TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI

 

STORIE DI AUTOLESIONISMO

Marta (nome di fantasia) ha 14 anni, frequenta il primo anno del liceo. Indossa una felpa gigantesca con un cappuccio enorme. Si vuole nascondere, è evidente. Lo sguardo è triste. Appena può salta la scuola e preferisce chiudersi in camera, piuttosto che uscire di casa. Quando riesce non condivide neppure il pasto coi genitori. Ha il volto tumefatto, con un segno in evidenza sotto lo zigomo. «Arriva da noi - spiega la psicoterapeuta del Bambino Gesù - tramite la famiglia e su segnalazione degli insegnanti che hanno notato macroscopiche modifiche nel suo comportamento quotidiano. La ragazza è sempre più chiusa, è evidente. E sempre maggiore è il suo desiderio di non intrattenere rapporti con gli altri, insieme al calo vertiginoso del suo rendimento scolastico. Marta non è più quella di prima. Durante le ore scolastiche, talvolta si chiude in bagno con una compagna o due. Rientra in classe ancora più affranta. La mamma intanto ha notato che, al ritorno dalle sempre più sporadiche uscite, il volto appare segnato, violentemente graffiato e tumefatto. Lo stratagemma di invitare a casa le poche amiche, compagne di quelle ore trascorse all’esterno delle mura domestiche, diventa una chiave di facile interpretazione. Anche Francesca e Virginia (altri due nomi di fantasia) hanno il viso “deturpato”, esattamente nella stessa identica maniera. Tutte e tre hanno disegnato sul volto la cosiddetta “cicatrice francese”».

Poi c’è Matteo, un ragazzone di 17 anni, ha un livido gigantesco sulla fronte, peggio di quelli che si procurano i bimbi da piccoli in occasione di una caduta rovinosa. Gli ematomi sono visibili anche sulle mani. Ma Matteo non ha fatto un incidente in motorino, non è cascato giocando a pallone. Matteo prende a testate la porta della sua camera e piglia a pugni l’armadio. La sua gestualità è ripetuta, rituale e di una violenza difficile da immaginare.

Poi c’è Valentina. Nasconde anche lei la bellezza dei suoi 16 anni sotto una felpa di dimensioni abnormi, rigorosamente nera. «L’avevo incontrata d’estate, faceva molto caldo - prosegue la psicoterapeuta - ma lei quella felpa non se la toglieva mai. Per forza, sulle braccia i segni della sua sofferenza, le sue grida. Braccia tagliate, a suon di lametta e temperino. E le gambe pure, anch’esse bellissime, ma trincerate dietro giganteschi jeans che nascondevano i chili persi. Un modo per mimetizzare i sintomi della sua difficoltà a regolare le tante emozioni negative, fatte di senso di fallimento, di inadeguatezza, tentativo di mettersi continuamente alla prova, desiderio di scomparire e punire il corpo. Lo faceva con i tagli e pochissimo cibo perché capita e, non di rado, che autolesionismo e anoressia facciano il paio. Tanto, tanto dolore, difficile da condividere a parole».

Giulia, invece, aveva addirittura una scritta incisa su una gamba. Ma non un tatuaggio. Una scarificazione «Una parola, “less” impressa sul corpo - afferma Pontillo - quattro lettere per spiegare quanto poco ritenesse di valere, meno, e ancora meno, di tutto e di tutti».

 

LE DIMENSIONI DI UN FENOMENO

L’autolesionismo colpisce in Europa circa 1 adolescente su 5. Le misure restrittive durante la pandemia da Sars-Cov2 hanno impattato significativamente sulla salute mentale dei bambini e degli adolescenti portando a un aumento esponenziale delle richieste di aiuto. «Se prima della pandemia - specifica Pontillo - l’autolesionismo in Italia riguardava il 20% dei ragazzi tra i 13 e i 18 anni; nel post Covid abbiamo raggiunto una percentuale ancora più impressionante, che supera addirittura il 50%, da quanto emerso da uno studio del Bambin Gesù in via di pubblicazione».

 

RAGAZZI CHE SI FANNO MALE

Ma che cos’è e come si presenta l’autolesionismo nei bambini e nei ragazzi? L’autolesionismo si può manifestare attraverso differenti modalità, sfumature e livelli di gravità. Si va dal procurarsi tagli al colpirsi con e contro oggetti rigidi, dal mordersi allo strapparsi i capelli, dal grattarsi la pelle fino a procurarsi sanguinanti e cheloidi a bruciarsi con la sigaretta. Può presentarsi come singola manifestazione o può essere associato ad disturbi psichiatrici, come i disturbi dell’umore, soprattutto depressione, disturbi del comportamento alimentare, disturbi della personalità e utilizzo di sostanze. «Ne soffrono sia i ragazzi, sia le ragazze - prosegue la psicoterapeuta - con una prevalenza doppia per le femmine, ma i maschi in compenso sono spesso molto più feroci nelle aggressioni fisiche verso se stessi. Dunque una situazione grave e inquietante allo stesso modo, in entrambi i casi».

 

LE RAGIONI

Che cosa sta dietro questo atto, spesso reiterato? «Un mondo di emozioni difficili da gestire, differenziate e personalissime che hanno però alcune matrici comuni - spiega Pontillo - come il desiderio di affermare se stessi attraverso un presunto atto di forza e coraggio perché ci si sente spesso confusi e inadeguati. Una modalità attraverso cui manifestare il proprio dolore perché la sofferenza fisica sembra in grado di lenire il dolore psicologico che è così prepotente da non dare tregua. Un senso devastante di vuoto che ha bisogno di “atti eroici” per essere colmato. Un tentativo di tastare un’emozione in una sorta di tabula rasa emotiva. Una regolazione della rabbia e della tristezza».

 

EMULAZIONE E CONDIVISIONE

E i social media talvolta non aiutano affatto, anzi, amplificano alla enne questi fenomeni. «I social costituiscono, infatti, una finestra sul mondo e permettono ai ragazzi di stare in contatto tra loro e lo abbiamo visto con la pandemia» prosegue la psicoterapeuta. «Tuttavia innegabili e allarmanti sono gli effetti di un’esposizione non filtrata, soprattutto per gli adolescenti più fragili e vulnerabili. Se già l’adolescenza costituisce di per sé una fase delle vita in cui si è maggiormente propensi al rischio per la struttura stessa del cervello in evoluzione (si sviluppa prima il sistema limbico di natura emozionale, rispetto ai lobi prefrontali deputati all’analisi razionale delle scelte), l’utilizzo smodato dei social determina un rischio aumentato di andare incontro a situazioni pericolose. I ragazzi osservano i comportamenti dei coetanei, li fotografano, li postano e li imitano. Emulazione e condivisione rendono questi fenomeni una piaga sociale, in grado di espandersi a una velocità impressionante».

 

COME PREVENIRE?

Ma insegnare ai ragazzi a usare meglio i social non basta. «Serve infatti - sottolinea Pontillo - un’educazione all’emozione, serve il dialogo con i genitori, serve una scuola in grado di osservare e comunicare con gli adolescenti e le loro famiglie. Serve allentare al massimo l’ansia da prestazione e non sottoporre bambini e ragazzi a ritmi spesso insostenibili. Ci sono bambini che non contemplano attimi di noia perché le loro agende sono ipeorganizzate tra sport e impegni vari. Non c’è tregua, non c’è spazio per il salvifico ozio creativo. Così i ragazzi diventano più insicuri, ansiosi e loro fragilità rende il social più pericoloso e ne amplifica il potere».

 

I CAMPANELLI D’ALLARME

«Un adolescente che diventa sempre più aggressivo e irritabile e che lo è in maniera sospetta (non uno scatto ogni tanto, tipico dell’età) deve allertare genitori e insegnanti» spiega Pontillo. «Discorso analogo qualora ci si trovi di fronte a un ragazzo o una ragazza che si isolano, che si chiudono sempre di più in se stessi, che si barricano nella propria cameretta. È fondamentale chiedere aiuto, partendo dal medico di base o dal pediatra che darà indicazioni sui centri specialistici disponibili sul territorio. Nel frattempo è utile assumere un atteggiamento non giudicante, né condannare il comportamento autolesivo».

 

CHE COSA FARE

Come intervenire se si sospettano comportamenti autolesionisti? «È necessario mettere in atto misure di controllo del rischio e del danno rimuovendo armi, farmaci e oggetti potenzialmente dannosi dalla portata del bambino o dell’adolescente e impedire l'uso di alcol e droghe. Sarà poi lo specialista a decretare la diagnosi di autolesionismo, prendendo in considerazione diversi aspetti: la definizione e lo studio dei comportamenti autolesionisti che deve permettere di valutare il rischio di danno fisico e la capacità dell’adolescente di tenere sotto controllo i propri stati emotivi. Connessa all’autolesionismo c’è la valutazione del rischio di suicidio attraverso una specifica indagine in merito alla presenza di pensieri di morte, fino alla vera e propria maturazione del pensiero del suicidio. Bisogna però sottolineare che atti di autolesionismo e tentato suicidio sono due cose totalmente diverse e non vanno assolutamente confuse, perché non è affatto detto che ci sia una possibile implicazione e/o correlazione».

 

COME SI CURA

L'autolesionismo è una malattia del corpo e dell’anima che richiede quindi un trattamento articolato, complesso e multidisciplinare. «Ovvero occorre coinvolgere professionisti di diverse discipline mediche - precisa la psicoterapeuta - e quanto più possibile cucito su misura in relazione sulle necessità dell'adolescente e sviluppato in collaborazione sia con il ragazzo che con la sua famiglia. Alcuni interventi psico-sociali che si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli episodi di autolesionismo sono al momento la terapia dialettico-comportamentale (DBT) e la terapia basata sulla mentalizzazione (MBT)».

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Paola Scaccabarozzi
Paola Scaccabarozzi

Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.   


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