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Sperimentazione animale: perché sì (almeno per ora)

Le motivazioni che hanno spinto Fondazione Umberto Veronesi a sottiscrivere la petizione di «Research4life»

Sperimentazione animale: perché sì (almeno per ora)

Lo scorso 24 settembre anche Fondazione Umberto Veronesi ha sottoscritto la petizione «Salviamo la ricerca biomedica», lanciata dalla rete «Research4life» in risposta all’attacco di un gruppo di animalisti estremisti nei confronti del ricercatore Marco Tamietto, responsabile di un progetto di ricerca neurologica che richiede anche l'utilizzo dei macachi.


Fuori di dubbio è, infatti, che, a oggi, non sia possibile fare a meno, in una certa fase della ricerca, dell’utilizzo di sistemi complessi, cioè di animali, per garantire il progresso in termini di conoscenza, cura e prevenzione delle malattie (umane e animali). Eliminare del tutto il loro impiego significherebbe bloccare la ricerca in campo medico e farmacologico, lasciando senza speranza moltissimi malati di oggi e di domani. Chi afferma il contrario o lo fa in buona fede per il forte desiderio di risparmiare vite animali, ma senza conoscere a fondo le motivazioni scientifiche per sui sono necessari (per approfondire rimando alla lettura del blog di Francesco Mannara). O per altri interessi, che spesso chiamano in causa la stessa persona.

Quanti animali si utilizzano nei laboratori di ricerca? I dati più recenti, per l’Italia, sono stati resi pubblici in Gazzetta Ufficiale il 13 marzo 2018 e si riferiscono al 2016. In totale, in quell’anno, nel nostro Paese sono stati impiegati a fini scientifici 607.097 esemplari (dieci anni prima furono 908.002). La gran parte degli animali utilizzati sono roditori: topi e ratti, in misura minore conigli. Altri organismi modello comprendono pesci zebra, moscerini della frutta, rospi, vermi nematodi e, in misura molto piccola, e soltanto per specifiche ricerche soprattutto sul sistema nervoso centrale, alcuni primati. Sono tanti o pochi? È giusto o sbagliato ricorrervi? Difficile dare una risposta univoca. È sicuramente vero che l’utilizzo di altre forme di vita, soprattutto senzienti, a scopo scientifico nei laboratori di ricerca in tutto il mondo, rappresenta un grande dilemma etico che non chiama in causa solo la scienza, ma la società nel suo complesso. Quello che è certo è che l’attenzione al benessere degli animali da laboratorio è molto aumentata, anche grazie ai movimenti di opinione in difesa degli animali.


Gli stabulari sono vincolati a molte regolamentazioni. L’ok ministeriale all’uso di animali nei progetti di ricerca richiede un'ampia documentazione. E la sperimentazione è regolamentata per garantire il minimo di sofferenza possibile, compatibilmente col tipo di ricerca effettuata. Tutti i ricercatori aderiscono al principio delle tre R«replace» (rimpiazzare l’uso di animali con altri metodi, se possibile), «refine» (utilizzare tutti gli strumenti per ridurre o eliminare ogni sofferenza dell’animale) e «reduce» (ridurre al minimo il numero di animali usati). A questo proposito, come abbiamo visto, il loro impiego si sta riducendo sempre di più negli anni. Questo è dovuto a molteplici fattori, tra cui sicuramente lo sviluppo di altri metodi di ricerca. Alcuni li definiscono «alternativi», ma si tratta di un termine confondente.

 

La parola «alternativo» evoca l’idea che questi metodi sia in opposizione all’utilizzo di animali e che consentano di ottenere lo stesso risultato in termini di aumento della conoscenza e sviluppo di nuovi farmaci e terapie, risparmiando vite animali. Ma, come già detto, così non è. Esistono invece molti metodi di ricerca «complementari», che vengono impiegati nei laboratori di ricerca di tutto il mondo. E che forniscono comunque preziose informazioni. Anzi, disporre di solidi dati preliminari in vitro (per esempio su colture cellulari) e da analisi informatiche (in silico), è condizione spesso essenziale per ottenere l’autorizzazione a procedere con approfondimenti negli animali. Quali sono questi metodi? Tra i più consolidati, sicuramente le colture cellulari sia in 2D (le classiche cellule appoggiate una accanto all’altra su una piastra da laboratorio) sia in 3D, ovvero utilizzando gel che «simulano» l’ambiente extracellulare di un tessuto animale o umano e danno «spessore e consistenza» (così le cellule possono organizzarsi non solo sul piano ma anche in profondità). Negli ultimi anni sono stati sviluppati anche sistemi in vitro sempre più raffinati: esempio organoidi e organi su chip.


Gli organoidi sono piccole strutture tridimensionali di cellule: a determinate condizioni di coltura, a partire da cellule staminali le cellule tendono spontaneamente ad aggregarsi in strutture tridimensionali, in genere fluttuanti nel mezzo di coltura e rotondeggianti. Un esempio sono le mammosfere, piccole palline originatesi da cellule staminali del tessuto mammario e molto impiegate nella ricerca sul tumore al seno. Le loro dimensioni sono però contenute, nell’ordine delle centinaia di micrometri, non possiedono vasi sanguigni o terminazioni nervose, e privi della molteplicità di cellule e interazioni dell’organo «vero». Inoltre, poiché per essere generate richiedono tempi lunghi e la somministrazione costante di un cocktail di ormoni e fattori di crescita, vi è ampia variabilità, che le rendono quindi poco «standardizzate» e in grado di fornire risultati di più complessa interpretazione. Gli organi su chip sono «microriproduzioni» di organi. Si utilizzano particolari vetrini che, grazie alla presenza di scanalature e microcanali separati da sottili membrane, sono in grado di guidare le cellule a organizzarsi nello spazio e a funzionare come organi in miniatura, naturalmente in maniera molto semplificata. Un esempio di successo è la generazione di un alveolo, l’unità base del polmone. Sono capolavori di microingegneria e aprono a scenari di applicazioni molto interessanti. Si tratta tuttavia di tecnologie ancora agli albori e per questo ampiamente sperimentali (al momento non se conoscono ancora potenzialità e limitazioni).

Un’altra strada al momento ancora troppo poco implementata e su cui varrebbe la pena di investire (lo sosteneva già anni fa anche Umberto Veronesi) è l’analisi, strutturata e rigorosa, delle banche dati di informazioni cliniche ed epidemiologiche presenti negli ospedali e nei centri di cura. Per organizzare in modo armonico questa mole di dati, ripulirli da quelli parziali e non più utilizzabili, occorre un grande lavoro sia in termini di piattaforme informatiche sia l’impiego di professionalità altamente specializzate: data manager, bioinformatici, biostatistici, epidemiologi. L’analisi dei dati clinici umani su larga scala potrebbe aiutarci a trovare correlazioni di efficacia di trattamenti farmacologici in base ai vari tipi e sottotipi di malattie. O evidenziare eventuali effetti collaterali, riducendo il numero di test tossicologici che in prima battuta vanno fatti sugli animali.

È possibile che non si arriverà mai a eliminare del tutto la necessità di impiegare gli animali nella ricerca biomedica. Tuttavia quella stessa ricerca sta già aprendo a nuovi metodi sempre più raffinati e potenti, che hanno già contribuito, e presumibilmente continueranno, a ridurne sempre più il numero.



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