Nel 2007 aveva solo 26 anni quando, sotto la doccia, Alessandra ha sentito un piccolo nodulo al seno. La diagnosi di tumore mammario ha segnato l’inizio di un percorso difficile: quadrantectomia, chemioterapia, terapia farmacologica. Poi la scoperta della mutazione BRCA, e con essa la decisione più dura: una chirurgia preventiva che l’ha portata a rimuovere entrambi i seni, le ovaie e l’utero. Una scelta radicale, personale, consapevole. Oggi, a distanza di anni, Alessandra la definisce senza esitazioni: “la mia libertà”. Ecco la sua storia.
IL TUMORE NON È SOLO TUO
«Sono sempre stata abituata a fare autopalpazione, viste le numerose diagnosi di tumore al seno nella mia famiglia. Eppure, a 26 anni, mi sentivo invincibile: ero giovane, alla mia prima esperienza lavorativa, e stavo guadagnando sempre più libertà e indipendenza. Dopo la diagnosi, e specialmente dopo la quadrantectomia che ha confermato la malignità del tumore e definito le cure che avrei dovuto intraprendere, mi è sembrato di vivere in un incubo, non mi sembrava la mia vita. Il corpo cambiava, i capelli cadevano, le energie venivano meno. Sono stati mesi durissimi, anche per la mia famiglia. Perché il tumore, questo lo capisci subito, non è solo tuo. È una malattia che coinvolge tutti quelli che ti stanno accanto».
UNA SCELTA DIFFICILE
«Dopo le cure, tramite il test genetico, ho scoperto di avere la mutazione BRCA1. Da quel momento è iniziato un nuovo percorso, fatto di consapevolezza e scelte preventive. Una su tutte: la mastectomia bilaterale preventiva a 28 anni. Poi, a distanza di poco tempo, anche l’asportazione di ovaie, tube e infine dell’utero. La chirurgia preventiva è stata la mia liberazione. I controlli continui mi facevano vivere con l’ansia addosso. Ogni esame diventava un semaforo temporaneo per poter tornare a respirare, ma con il pensiero fisso al controllo successivo. Non ce la facevo più a vivere in attesa».
UNA NUOVA IDEA DI FAMIGLIA
«La decisione non è stata facile, anche perché ha comportato la rinuncia alla maternità biologica dato che non avevo crioconservato gli ovociti prima delle cure. Quando me lo proposero non avevo la testa per pensarci. A 26 anni l’unica urgenza era sopravvivere e “esserci” per passare del tempo con la mia famiglia, anche facendo le cose più semplici del mondo. Quando si parla di “famiglia” pensi subito a uomo, donna e bambino. Ma la malattia ha rivoluzionato anche questo concetto e ho riscoperto il fatto che io e marito siamo una famiglia, anche senza figli. È una cosa che forse non tutti comprendono, ma a noi non manca nulla. Abbiamo affrontato tanto insieme e ci siamo costruiti la nostra esistenza. Abbiamo un nipote al quale vogliamo un gran bene, i figli degli amici che trattiamo come parte della nostra famiglia. È una scelta che ti cambia la vita, ma noi, la nostra, abbiamo scelto di cucircela addosso».
TRA NATURA E SPORT
«Dopo la malattia ho imparato a capire cosa mi faceva davvero stare bene. Ho iniziato a prendermi cura di me, per davvero. Il contatto con la natura mi ha aiutata. La montagna, durante le terapie, mi ha dato modo di riprendere le forze con lunghe camminate. Il mare mi ha aiutato a rimettere in ordine le idee quando avevo molta confusione in testa. Il connubio tra il mare e la montagna mi ha portato ad abbracciare la meditazione. Mi rilassa e, al tempo, mi ha aiutato a prendere consapevolezza della nuova Me. Ho iniziato a camminare, poi a correre. La corsa è diventata la mia valvola di sfogo, il mio spazio. Un’ora tutta per me, con la musica nelle orecchie e la mente che si libera. Ho scoperto quanto bene possa fare al corpo, ma soprattutto alla testa».
IL RAPPORTO CON LE PINK
«Anche da sola mi piace correre, ma condividere gli allenamenti con persone che hanno vissuto lo stesso percorso è molto più che sport, è sostegno, leggerezza. Per questo mi sono unita al gruppo delle Pink Ambassador di Padova da un paio d’anni. Prima non c’era un gruppo vicino alla zona in cui abito, per questo sono arrivata così tanti anni dopo la malattia. Siamo in otto, più la nostra coach, e quell’ora insieme è davvero solo nostra. Ridiamo, ci confrontiamo se serve, ma soprattutto stacchiamo. Ci unisce la voglia di stare bene, senza parlare sempre e solo della malattia. La Fondazione ci segue anche con webinar e consigli nutrizionali. Correre insieme è un modo per prenderci cura di noi, ma anche per supportare chi affronta ora lo stesso cammino».
UN GRAZIE ALLA RICERCA
«Sono profondamente riconoscente alla ricerca. Far parte delle Pink è un modo per restituire questa gratitudine, oltre che un grande beneficio personale. Dal 2007 ad oggi ho visto con i miei occhi i progressi della ricerca: terapie più mirate, cure meno invasive, maggiore personalizzazione. Sapere che esiste una mutazione genetica, poterla identificare, decidere come agire: tutto questo ti cambia la vita. La conoscenza è potere. La ricerca è Vita».