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Alessandro Vitale
pubblicato il 11-02-2021

Osteosarcoma: un tumore dal genoma «fragile»



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Federica Scotto di Carlo lavora per identificare i geni che, mutando, innescano la formazione dell'osteosarcoma. Dalla sua ricerca possibili ricadute anche per i tumori al seno e al pancreas

Osteosarcoma: un tumore dal genoma «fragile»

L’osteosarcoma è un tumore maligno raro che ha origine nelle cellule ossee e colpisce prevalentemente in età pediatrica e adolescenziale, poiché questi pazienti si trovano nel periodo di massima crescita dell'osso. Spesso le cellule di questo tumore hanno una grande eterogeneità e una importante complessità genetica, con alterazioni molecolari multiple che rendono difficile l'identificazione di terapie innovative.

 

Una delle mutazioni tipiche dell’osteosarcoma è l’instabilità del genoma, cioè la duplicazione o la cancellazione errata di grandi porzioni di cromosomi (o di cromosomi interi): studiare i meccanismi alla base di questi errori nella divisione cellulare è fondamentale per sviluppare nuove terapie.


Su questi aspetti lavora Federica Scotto di Carlo, biologa e ricercatrice presso l’Istituto di Genetica e Biofisica del Cnr di Napoli, che svilupperà la sua ricerca nel 2021 con il sostegno di Gold for Kids, il progetto di Fondazione Umberto Veronesi dedicato ai tumori dell’età infantile e pediatrica.

 

Federica, perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?

«Nel nostro laboratorio di genetica ci siamo orientati verso l’identificazione di geni associati all’insorgenza di malattie e tumori ossei. L’osteosarcoma, in particolare, rappresenta una sfida perché è caratterizzato da un’elevata eterogeneità genetica, e aumentare le conoscenze molecolari alla base di questa complessità è fondamentale».

 

Come nasce l'idea del vostro lavoro?

«Abbiamo sfruttato la familiarità dell’osteosarcoma in alcuni pazienti consanguinei affetti da malattia ossea di Paget, una condizione cronica che causa deformità dello scheletro e può condurre a tumori ossei. Abbiamo applicato delle tecnologie di sequenziamento di nuova generazione e individuare il gene “causa” della malattia, che fosse condiviso dai membri della famiglia. Così facendo abbiamo isolato il gene PFN1, che produce la proteina Profilina 1, come responsabile dell’osteosarcoma secondario alla malattia di Paget».

 

Cosa volete studiare ora?

«Un fenomeno ricorrente nell’osteosarcoma è l’instabilità cromosomica, ovvero la progressiva alterazione del numero di cromosomi che fa sì che la cellula tumorale acquisisca un vantaggio proliferativo e una resistenza ai trattamenti farmacologici. Non sempre è chiaro cosa scateni questa instabilità cromosomica e il nostro intento è verificare il coinvolgimento della Profilina 1. Nell’ultimo anno abbiamo generato diversi modelli di studio: sia cellulari, utilizzando la tecnologia di editing genomico CRISPR/Cas9, sia animali. Adesso useremo questi modelli per studiare come la Profilina 1 regoli la divisione cellulare e la ripartizione dei cromosomi, e se una perdita della sua funzionalità possa indurre la trasformazione delle cellule normali in cellule di osteosarcoma».

 

Quali sono le possibili applicazioni alla salute umana?

«Comprendere uno dei meccanismi alla base dell’instabilità cromosomica potrebbe permette di identificare nuovi bersagli molecolari per lo sviluppo di trattamenti terapeutici. Inoltre, la perdita di funzione della Profilina 1 è stata riscontrata anche nel tumore al seno e nel tumore al pancreas. È ipotizzabile che le scoperte fatte nell’ambito dell’osteosarcoma possano essere traslate, almeno parzialmente, ad altri tipi di tumori».

 

Federica, perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«A esser sincera mi sono iscritta al corso di laurea in Biologia e avevo già deciso: al liceo non avevo un’idea chiara di cosa fosse la ricerca, ma immaginavo si trattasse di un lavoro mai ripetitivo, che richiedesse studio e una dedizione costante. Insomma un lavoro dinamico che mi confacesse. A distanza di qualche anno, posso dire che non mi ero sbagliata!».

 

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare.

«Può sembrare banale, ma il momento che vorrei incorniciare è quando, per la prima volta, ho fatto un’ipotesi e ho verificato che l’idea fosse giusta. Non nego di essermi emozionata guardando gli oculari del microscopio. Quando penso a un momento felice mi viene in mente quella sensazione di soddisfazione. Un momento da dimenticare, invece, è stato il rifiuto da parte di una rivista scientifica di un lavoro del quale ero prima autrice. Con modifiche e altri esperimenti siamo poi riusciti a pubblicare, ma ricordo di aver reagito molto male. Era la prima volta che ricevevo un feedback da parte della comunità scientifica su un progetto al quale mi ero dedicata tantissimo. Probabilmente, non seppi gestire l’emozione negativa».

 

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Spero in qualità di group leader di un laboratorio di ricerca. Mi piacerebbe approfondire e dedicarmi alla tematica dell’instabilità genomica nell’oncologia. Non nascondo che mi piacerebbe continuare a fare brainstorming con il mio attuale tutor, e di lavorare spalla a spalla con lui, un giorno».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Non riesco a scegliere una sola cosa! Mi piace l’idea di portare degli avanzamenti nella conoscenza dei meccanismi di base e delle malattie, mi piace la gratificazione intellettuale di vedere lo sviluppo di una propria idea, mi piace la possibilità di girare il mondo per i congressi, incontrare vecchi collaboratori e conoscerne di nuovi. È una professione molto dinamica e credo di esserne dipendente!».

 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«L’ansia di doversi procurare dei fondi. È qualcosa che non vivo appieno sulla mia pelle, per ora, ma che sottrae molte energie a chi gestisce il laboratorio».

 

Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale.

«Sebbene i miei genitori non siano ricercatori, rappresentano per me una fonte di ispirazione anche professionale. Entrambi fanno il lavoro che sognavano sin da bambini, e credo che mi abbiano inculcato l’idea di aspirare a qualcosa di ambizioso e perseguirlo».

 

In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«La comunità scientifica ha la grande responsabilità di divulgare i progressi fatti dalla ricerca e renderli comprensibili e apprezzabili anche ai “non addetti ai lavori”. Trovo, però, che questo culmini spesso nella pubblicazione di articoli sui giornali con titoli che non riflettono correttamente le scoperte fatte, e illudono le persone leggono. A volte ho l’impressione che questo, invece di attirare le persone alla scienza, le allontani».

 

E in che modo e da chi, invece, potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?

«Potrebbe essere aiutato da coloro che hanno molta influenza sulle persone. Mi riferisco a medici o professionisti rispettati, ma anche ai cosiddetti influencers su Instagram. Sono sicura che se iniziassero a fare donazioni a fondazioni che finanziano la ricerca, molta più gente investirebbe in tal senso».

 

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Un po’ sì. E diciamolo: l'emergenza Covid-19 non ha migliorato il clima antiscientifico che già si respirava in Italia. Troppo spesso mi trovo a difendere la “categoria” del ricercatore, anche sui social network».

 

Federica, cosa fai nel tempo libero?

«Al di fuori dell’attività di laboratorio non mi resta moltissimo tempo. Non è raro trovarmi in laboratorio nel weekend o nei giorni di festa! Mi piace comunque trovare un po’ di tempo per dedicarmi all’attività fisica e approfondire la conoscenza delle lingue straniere: se guardo un film o una serie TV mi piace farlo in lingua originale per poter imparare nuovi modi di dire o migliorare la pronuncia».

 

Quando è stata l’ultima volta che ti sei commossa?

«Posso dirlo? Quando ho ricevuto la mail che comunicava che ero vincitrice della borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi. Ho pianto tantissimo per la gioia, non riuscivo a smettere! Forse perché è stata la prima volta in cui ho scritto da sola un progetto ed è stato valutato positivamente».

 

Sei felice della tua vita?

«Sì, direi proprio di sì. Mi piace cambiare e migliorarmi costantemente, ma col tempo sto imparando a distinguere le cose che posso effettivamente cambiare da quelle che non dipendono da me. E questo mi dà serenità».

 

La cosa di cui hai più paura.

«Perdere qualche persona cara per colpa di una malattia, come il cancro».

 

E quella che più ti fa arrabbiare?

«Il disordine, mentale e materiale. E le persone che non cambiano mai».

 

C’è un libro che ti piace o ti rappresenta?

«La saga di Harry Potter perché mi ha trasmetto che sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità».

 

Un ricordo a te caro di quando eri bambina.

«Mia mamma che mi accompagna a scuola ogni mattina, a piedi, cantandomi le canzoni dei cartoni animati».

 

Prima di salutarci, cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«La ricerca scientifica porta sempre a nuove conoscenze, fondamentali per migliorare le diagnosi e le cure. Anche se lentamente e un piccolo tassello alla volta, la ricerca progredisce. Ma per farlo c’è bisogno di tempo, costanza e, soprattutto, di supporto economico. Ringrazio tutti coloro che hanno capito l’importanza di donare a sostegno della ricerca scientifica».


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