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Alessandro Vitale
pubblicato il 27-10-2020

Studio l'evoluzione dei tumori della cervice uterina con la PET



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Le tecniche di imaging avanzato possono descrivere lo sviluppo dei tumori e fornire previsioni sul loro decorso. Leggere queste immagini è il lavoro di Federica Scalorbi

Studio l'evoluzione dei tumori della cervice uterina con la PET

La maggior parte dei tumori è caratterizzata da alterazioni che vengono identificate tramite la biopsia, un esame medico che consiste nel prelievo e successiva analisi di un campione di tessuto del paziente.


Lo sviluppo clinico, tuttavia, sta portando alla ribalta nuove possibilità altrettanto promettenti e informative: le tecniche di elaborazione delle immagini (o di imaging) consentono infatti di ottenere informazioni dettagliate sulla morfologia e sulle caratteristiche del tumore in modo non invasivo. Tra queste c’è la cosiddetta radiomica, metodologia emergente che permette di analizzare le immagini della PET attraverso software innovativi per estrarre dati non «visibili» a occhio nudo.

 

Federica Scalorbi, medico all'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, sta portando avanti il suo progetto dedicato ai tumori della cervice uterina per il secondo anno consecutivo, e per tutto il 2020, grazie a una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto Pink Is Good.

 

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Federica, sappiamo che stai mettendo a punto una tecnica di imaging basata sulle immagini radiologiche per studiare il tumore della cervice uterina.

«Sì esatto. Dal punto di vista più tecnico, se vogliamo, sono alla ricerca di caratteristiche radiomiche applicate alla PET nelle donne con tumore della cervice uterina localmente avanzato. Il mio progetto intende studiare l’eterogeneità, che spesso caratterizza i tumori, e che può essere valutata anche attraverso lo studio delle immagini delle lesioni stesse. Questo è possibile perché la PET è una metodica di imaging che può anche evidenziare il metabolismo delle lesioni».

 

Per metabolismo, in questo caso, si intende la velocità di crescita del tumore?

«Nel mio progetto di studio valutiamo la cosiddetta PET/FDG, che mostra l’avidità delle lesioni per il glucosio, un metabolita centrale per il corpo umano. Diciamo che, in linea di principio, quanto maggiore è l’avidità per il glucosio (FDG), tanto maggiore è la aggressività tumorale».

 

Tu parlavi però di eterogeneità tumorale: cosa c’entra il metabolismo?

«Per la clinica è di fondamentale importanza comprendere se questo parametro, l’avidità, sia omogenea o meno all’interno della massa tumorale. Questo aspetto impatta sulla capacità di risposta alle terapie: sappiamo da tempo che cellule metabolicamente differenti rispondono in modo differente alla medesima terapia, come una chemioterapia».

 

Come funziona, nello specifico, la radiomica di imaging PET?

«La radiomica analizza nel profondo le immagini, quasi pixel per pixel, eseguendo una serie di corse nelle tre direzioni all’interno del volume della lesione. È un po’ come se ci fosse un patologo che taglia fette sottilissime all’interno dell’organo che vuole sezionare, ripetendo la operazione un numero enorme di volte, in tutte le direzioni che desidera. Noi facciamo lo stesso con l’immagine 3D del tumore, in modo meno invasivo: all’interno di queste fette valutiamo l’eterogeneità delle diverse cellule tumorali e la correliamo con la risposta della paziente alle terapie. Il nostro obiettivo in futuro sarà quello di prevedere la probabilità di risposta a una determinata terapia, prima di eseguirla sulla singola paziente. Si tratta di un concetto fondamentale alla base della medicina personalizzata».

 

Federica, su queste pagine siamo abituati a immaginare la giornata tipo di un ricercatore. Com’è, invece, quella di un medico che si dedica alla ricerca?

«La mattina spesso incontro le pazienti che dovranno essere sottoposte all’esame PET, per domandare la loro volontà o meno di partecipare allo studio, con relativa firma del consenso come da norma di legge. Nel corso della giornata valuto le immagini, recupero le informazioni cliniche delle pazienti già arruolate, mi confronto con i colleghi radiologi e ginecologi in merito a linee guida, aggiorno i database e leggo la letteratura per tenermi aggiornata e cercare idee nuove per trial clinici. Nell’ultimo periodo sto studiando a fondo le applicazioni delle analisi molecolari nello studio dei tumori, per predirne aggressività e chemio-radio resistenza».

 

C’è qualche episodio particolare a cui hai assistito nel tuo lavoro?

«Mi colpisce sempre profondamente incontrare donne giovani che dovranno essere sottoposte a un'isterectomia, perdendo quindi del tutto la possibilità di diventare madri».

 

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Durante un viaggio in Africa, durante l’esplorazione dei Parchi Naturali della Tanzania, ho compreso che volevo fare qualcosa in prima persona per modificare il decorso delle patologie tumorali. Applicare protocolli e criteri già decisi non mi bastava più».

 

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare.

«Durante il corso di specializzazione mi sono traferita all’università di Bologna per completare la mia formazione in Medicina Nucleare. Questa scelta, non semplice, ha cambiato drasticamente il mio futuro professionale, arricchendolo profondamente. Momenti da dimenticare… di solito si pensa a quegli istanti in cui non si ha avuto il coraggio di osare, di pensare in grande: invece occorre ricordarli, come spinta per il futuro».

 

Come ti vedi fra dieci anni?

«Ricercatrice full-time in ambito oncologico. Spero anche di poter insegnare, mi piacerebbe trasmettere ai giovani il mio entusiasmo».

 

Federica, qual è il senso profondo che ti spinge a fare ricerca?

«La curiosità della ricerca, esplorare ambiti nuovi, o meglio applicare metodiche note a nuovi ambiti. In definitiva, pensare in modo nuovo».

 

Percepisci un sentimento antiscientifico in Italia?

«Penso ci sia stato un atteggiamento anti-scientifico espresso dai movimenti antivaccinisti, ma credo anche che questa epidemia stia riportando la fiducia nei ricercatori».

 

In cosa, secondo te, può migliorare la comunità scientifica?

«Credo che la comunità scientifica stia già facendo già molto per avvicinarsi ai comuni cittadini; a mio avviso deve continuare a perseverare utilizzando tutti gli strumenti a disposizione, in particolare stimolare le nuove generazioni e renderle responsabili riguardo i possibili cambiamenti futuri».

 

Raccontaci di te: il film che più ti rappresenta.

«Sono molto legata a Blade Runner, la prima versione. Il pensare che già nel 1982, prima che io nascessi, ci fosse qualcuno che si chiedeva se “gli androidi sognano pecore elettriche” mi sembra a dir poco geniale!».

 

Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale e professionale.

«Marie Curie. Mi ha trasmesso la necessità di un metodo scientifico e la perseveranza nella ricerca».

 

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«Avrei studiato matematica o statistica medica».

 

È passato un anno da questa domanda, ma ti concediamo una seconda chanche: con quale personaggio famoso ti piacerebbe cenare?

«Con lo storico Alessandro Barbero: gli domanderei se pensa che esisterà mai una vera Europa Unita».

 

Prima di salutarci, cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Continuate a credere in noi. Chi sceglie questo lavoro, lo fa spesso con una forza e una determinazione frutto di anni di sacrifici, ma anche di piccole vittorie. Non fermateci, sapremo essere il vostro futuro».

 

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