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Agnese Collino
pubblicato il 28-08-2017

Tumori della tiroide: il ruolo dell’inquinamento ambientale



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Alcuni inquinanti provenienti dalla produzione delle plastiche possono compromettere le funzioni della tiroide. Vincenzo Marotta ne studia gli effetti

Tumori della tiroide: il ruolo dell’inquinamento ambientale

Bisfenoli e ftalati sono composti chimici utilizzati nell’industria delle plastiche (come il policarbonato e il PVC) per migliorare le qualità dei materiali: in particolare i bisfenoli  vengono aggiunti per garantire durezza, mentre gli ftalati per aumentare l’elasticità. Tuttavia è ormai noto come queste sostanze rappresentino categorie di contaminanti ambientali in grado di essere assorbiti dal nostro organismo e di interferire con le funzioni della tiroide, e per questo motivo sono stati in parte ritirati dal commercio. Grazie a un finanziamento erogato dalla Fondazione Umberto Veronesi Vincenzo Marotta, medico endocrinologo e ricercatore post-dottorato presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, punta ad approfondire il rapporto fra inquinamento ambientale e sviluppo del tumore della tiroide: andando a verificare in particolare se bisfenoli e ftalati possano avere ruolo nella cancerogenesi tiroidea.

 

Vincenzo, cosa farai nello specifico nell’ambito del tuo progetto?

«L’obiettivo principale è di analizzare l’eventuale associazione tra l’esposizione a bisfenoli e ftalati e lo sviluppo di patologia nodulare tiroidea, includendo sia i noduli benigni (spesso portatori di alterazioni genetiche, e quindi da considerarsi vere e proprie lesioni pre-cancerose) che quelli maligni. Cercherò inoltre di valutare se esista una differenza nel grado di esposizione a questi inquinanti fra soggetti senza patologia tiroidea, soggetti con noduli tiroidei benigni, e soggetti con cancro alla tiroide. Verrà infine ricercata la possibile correlazione degli inquinanti studiati con la comparsa di mutazioni genetiche specifiche che favoriscano la trasformazione tumorale».

 

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Quali prospettive per la salute umana ti aspetti quindi possano provenire dal tuo lavoro?

«Questo studio potrà avere un impatto cruciale sulla conoscenza della biologia molecolare del cancro tiroideo ed eventualmente sull’ambito della medicina preventiva, ponendo le basi razionali per definire strategie mirate a proteggere la popolazione da questo tipo di tumore».

 

Sei mai stato all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Si, tra il 2014 e 2015 sono stato per un anno a Parigi, presso l’Istituto Gustave Roussy (Villejuif, Francia) e l’Università Paris Sud. Vi ho svolto attività di ricerca di base e clinica, e ho conseguito due master: uno in Ricerca Oncologica Clinica e Traslazionale e uno in oncologia clinica».

 

Cosa ti ha spinto ad andare?

«La necessità quasi impellente di entrare in contatto con altre realtà nell’ambito della ricerca, così da apprendere (e mettere in pratica, una volta tornato, in Italia) approcci metodologici ed analitici differenti. È un’esperienza che mi ha fatto maturare sia dal punto di vista professionale che personale. Mettere la testa “fuori dal guscio” almeno per un po’ è essenziale per chi vuole fare il ricercatore».

 

Come mai hai deciso di intraprendere la strada della ricerca?

«Ho avuto la fortuna di poter lavorare con grandi maestri nel mio settore di ricerca, che mi hanno trasmesso una grande passione. Poi, a volte, è la vita che sceglie per te…».

 

C’è un momento della tua vita lavorativa che vorresti davvero dimenticare? Qual è stato invece il momento migliore che ricordi?

«Non ho momenti da dimenticare: tutto aiuta a crescere. Incornicerei invece il giorno in cui ho vinto, in maniera del tutto inattesa, il premio della società scientifica di cui faccio parte (la Società Italiana di Endocrinologia, ndr) come migliore ricercatore under 35».

 

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Spero ancora in un’università, o comunque in una struttura di ricerca».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il poter dare il proprio apporto al progresso, e il fatto che non si smetta mai di mettersi in discussione e imparare».

 

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E cosa invece eviteresti volentieri?

«La precarietà».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Io sono un medico: per me è applicare le nuove conoscenze per la diagnosi e la cura delle malattie».

 

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«Non me lo domando neanche!».

 

Se dovessi scommettere su un filone di ricerca biomedica che fra cinquant'anni avrà prodotto un concreto avanzamento per la salute, su cosa punteresti?

«L’utilizzo dei marcatori molecolari (nei tessuti dei diversi organi o nel circolo sanguigno) per migliorare le capacità diagnostiche e tendere sempre più alla personalizzazione delle terapie».

 

C’è qualcosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita?

«Vorrei visitare l’Africa».

 

Qual è la cosa che più ti fa arrabbiare?

«Vedere persone intelligenti e capaci non valorizzate».

 

Cosa fai nel tempo libero?

«I miei figli e mia moglie…è a loro che dedico tutto il tempo che riesco a ritagliare al di fuori del lavoro».

 

Quando è stata l’ultima volta che ti sei commosso?

«Proprio quando sono nati i miei figli».

 

Se un giorno uno di loro ti dicesse che vuole fare il ricercatore, come la prenderesti?

«Lo incoraggerei, sperando che fra 20 anni qualcosa sia cambiato…».

 

Agnese Collino
Agnese Collino

Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica


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