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Francesca Borsetti
pubblicato il 04-05-2022

Un sensore per monitorare l’immunoterapia



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L’immunoterapia apre grandi prospettive per la cura dei tumori, ma servono nuove tecniche a basso costo per rilevare gli anticorpi e monitorare la terapia

Un sensore per monitorare l’immunoterapia

Il tumore del seno, i tumori gastrointestinali e del polmone sono le forme oncologiche più frequenti a livello mondiale. Che cos'hanno spesso in comune? La produzione anomala e un’attivazione inappropriata di MUC1 e EGFR, due proteine che favoriscono la proliferazione delle cellule malate.

Molecole come MUC1 e EGFR, quindi, sono bersagli ideali delle immunoterapie a base di anticorpi chiamati “bispecifici”, cioè in grado di legare contemporaneamente due molecole. Attraverso la loro iniezione diretta nell’organismo, il sistema immunitario del paziente è stimolato ad aggredire le cellule malate. Sfortunatamente il monitoraggio di queste immunoterapie (fondamentale per valutarne l’efficacia) è oggi dispendioso in termini di tempo e di risorse, e occorrono nuove metodiche per il rilevamento a basso costo degli anticorpi.

Davide Mariottini è ricercatore presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, dove studia lo sviluppo di un sensore per il monitoraggio di anticorpi bispecifici che riconoscono MUC1 e EGFR. Il suo studio si concentra su una tecnologia che combina le caratteristiche strutturali del DNA con le proprietà funzionali degli anticorpi e che potrebbe essere facilmente adattata per altri bersagli molecolari e per altri tumori.

Il suo progetto è sostenuto nel 2022 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto Pink is Good.

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Davide, come nasce l'idea del vostro lavoro?

«L’idea nasce dalla necessità di sviluppare nuovi sistemi di monitoraggio associati all’immunoterapia. Quest’ultima ha fatto grossi passi in avanti negli ultimi anni ed è necessario che a questi progressi seguano altrettanti avanzamenti nel monitoraggio della terapia stessa. Per questo motivo, ho deciso di realizzare un sensore di DNA che possa rilevare la presenza di anticorpi bispecifici, cioè di anticorpi capaci di legare contemporaneamente due antigeni, cioè bersagli di interesse terapeutico per il cancro».

Perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?

«Abbiamo scelto questa linea di ricerca perché riteniamo che l’utilizzo degli anticorpi bispecifici rappresenti una nuova frontiera nei trattamenti oncologici e nell’immunoterapia e ciò richiede lo sviluppo di nuove tecniche di rilevamento associati a questi nuovi anticorpi».

Come intendete portare avanti il vostro progetto quest’anno?

«Durante questo anno il nostro obiettivo è quello di realizzare un sensore basato sul DNA in grado di rilevare la presenza di anticorpi bispecifici di interesse terapeutico oncologico. La realizzazione di questo sensore sarà possibile combinando le proprietà strutturali e funzionali del DNA con le proprietà di riconoscimento degli anticorpi. A questo proposito ho focalizzato il mio interesse sull’anticorpo bispecifico anti-EGFR/MUC1 e sul suo rilevamento. EGFR e MUC1 sono due proteine bersaglio nei trattamenti immunoterapici, in quanto se over-espresse (cioè prodotte dalle cellule in quantità eccessive, N.d.R.) sono associate a numerosi tumori come quelli del seno e del colon-retto».

Quali prospettive apre, anche a lungo termine, per la salute umana?

«Grazie a questo progetto potremmo avere un nuovo strumento che permetta il monitoraggio della terapia e che sia accessibile a tutti soprattutto in termini di costi».

Sei mai stato all’estero per un’esperienza di ricerca?

«Sono stato due volte negli Stati Uniti, entrambe presso l’University of California Santa Barbara (UCSB). La prima volta sono andato appena conseguita la laurea magistrale e la seconda durante il dottorato».

Cosa ti ha spinto a partire?

«Il desiderio di venire in contatto con nuove realtà, sia da un punto di vista scientifico, sia culturale. Nel mio immaginario il confronto con la diversità avrebbe potuto rappresentare un motivo di crescita personale e professionale e così è stato».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«L’esperienza in California è stata una grande opportunità di arricchimento: mi ha permesso di rendermi conto che tutto ciò a cui siamo abituati in Italia e che diamo per scontato - sia in positivo che in negativo - potrebbe non combaciare e molto spesso non combacia con ciò a cui sono abituati in America».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Ho realizzato di voler fare il ricercatore grazie al tirocinio della laurea magistrale: mi piaceva quello che facevo e volevo dare continuità al lavoro che stavo svolgendo». Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno invece da dimenticare. «Sicuramente vorrei incorniciare il mio primo articolo scientifico pubblicato, mentre per ora non è ho nessuno da dimenticare».

Come ti vedi fra dieci anni?

«Mi vedo realizzato, magari proprio grazie alla ricerca scientifica».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«La possibilità di dare un contributo realistico e tangibile al miglioramento della società».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Eviterei le continue difficoltà nel trovare sostengo economico associato alla ricerca stessa. Per questo motivo non posso far altro che ringraziare il sostegno di Fondazione Umberto Veronesi, a favore della ricerca in tutti i suoi aspetti».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Un grosso investimento per il futuro».

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«Probabilmente avrei cercato qualche posizione stimolante in qualche industria biotecnologica».

In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«La comunità scientifica, secondo me, dovrebbe tentare una comunicazione più diretta e non divisiva nei confronti della società civile, cercando di non chiudersi in sé stessa».

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Sì, penso che una piccola parte della popolazione guardi alla scienza con scetticismo, ma soltanto perché non dotata dei giusti strumenti per comprenderla a pieno».

Se un giorno tuo figlio o tua figlia ti dicesse che vuole fare ricerca, cosa gli o le diresti?

«Gli o le direi che è una strada difficile e che bisogna essere pronti a tenere duro, ma che allo stesso tempo è una strada che può regalare tante soddisfazioni».

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«L’arroganza e l’ingiustizia».

Davide, qual è il tuo libro preferito?

«Siddharta, di Hermann Hesse».

E il film?

«2001: Odissea nello spazio».

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Direi loro che un piccolo gesto per la propria vita può avere un grande impatto sulla vita altrui. È proprio grazie alla ricerca scientifica se oggi possiamo vantare un grosso miglioramento nella diagnosi e nel trattamento di patologie che fino a 30-40 anni fa erano pressoché incurabili. Ma la ricerca scientifica è un processo continuo che va costantemente alimentato e spetta anche a noi dare il nostro contributo».

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