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Francesca Borsetti
pubblicato il 18-04-2023

Uno sguardo d’insieme per combattere il colangiocarcinoma



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L’analisi simultanea di diversi dati biologici potrebbe aiutare a sviluppare un modello predittivo per l’analisi precoce del colangiocarcinoma: la ricerca di Andrea Cerrato

Uno sguardo d’insieme per combattere il colangiocarcinoma

Il colangiocarcinoma è un tumore che si sviluppa all'interno dei dotti biliari (i colangiociti), i canali che trasportano la bile dal fegato all'intestino. È un tumore raro, che colpisce prevalentemente sopra i 65 anni, ma la cui incidenza è in aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione. Il colangiocarcinoma è comunemente asintomatico negli stadi iniziali e la diagnosi in fase avanzata compromette la possibilità di un intervento chirurgico risolutivo. Per questo motivo, è necessario individuare dei biomarcatori non invasivi per una diagnosi precoce della malattia e per indirizzarne il trattamento.

Andrea Cerrato è ricercatore presso l’Università degli Studi di Roma "La Sapienza", e l’obiettivo del suo studio è identificare un “set” di biomarcatori (attraverso l’analisi di diversi tipi di dati biologici dei pazienti) così da creare un modello per l’analisi del colangiocarcinoma in fase precoce. Il suo progetto sarà sostenuto per il 2023 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

 

Andrea, perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?

«Negli ultimi decenni vi è stato un rapido incremento delle diagnosi di colangiocarcinoma in Europa e Nord America, principalmente a causa dell’invecchiamento della popolazione: il colangiocarcinoma, infatti, colpisce con maggiore frequenza le persone anziane. L’Italia è il Paese dell’Unione Europea che mostra un invecchiamento progressivo della popolazione più rapido ed è quindi particolarmente sensibile a patologie di questo tipo. Attualmente non sono noti dei marcatori per la sua diagnosi precoce, quindi il colangiocarcinoma viene spesso diagnosticato in stadi avanzati della malattia, compromettendo la possibilità di asportazione chirurgica del tumore».

Come intendete portare avanti il vostro progetto quest’anno?

«La ricerca di marcatori tumorali necessita della sinergia di competenze differenti. Il nostro progetto nasce dalla collaborazione tra il gruppo di ricerca di cui faccio parte e l’IRCCS Humanitas Research Hospital di Milano, un centro di riferimento per i tumori del fegato. Lo scopo del progetto è quello di sviluppare un approccio multi-omico (cioè una strategia che permette di ottenere una visione d'insieme molto completa sui processi metabolici – N.d.R.), per determinare un modello predittivo in grado di identificare biomarcatori non invasivi del colangiocarcinoma. A questo scopo, verrà effettuata una valutazione completa dei profili molecolari di siero e urina di pazienti con colangiocarcinoma a diversi stadi e sottoposti a diversi regimi di trattamento. L'analisi statistica dei dati permetterà di “selezionare” alcuni metaboliti – cioè molecole prodotte dai processi del metabolismo – che saranno studiati in quanto possibili marcatori predittivi».

Quali sono le prospettive, anche a lungo termine?

«Questo studio rappresenterà un primo passo verso una conoscenza più profonda delle alterazioni metaboliche dovute all’insorgenza del colangiocarcinoma. Studi di questo tipo sono fondamentali per la futura messa a punto di strategie di diagnosi precoce e non invasiva del colangiocarcinoma».

Sei mai stato all’estero per un’esperienza di ricerca?

«Purtroppo no: era in programma durante il dottorato di ricerca, ma è iniziata la pandemia di COVID-19 e non se ne è fatto più niente. Sono molto rammaricato, ma mi rendo conto di essere stato comunque più fortunato di altre persone per i quali la pandemia ha avuto effetti molto più rilevanti. In futuro mi piacerebbe svolgere un periodo di attività di ricerca all’estero per migliorare la mia formazione professionale e personale, ma non riesco a immaginarmi stabilmente lontano dall’Italia».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il dinamismo: ogni giorno è diverso dal precedente, di sicuro non ci si annoia mai».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La precarietà è sicuramente il problema principale per le generazioni più giovani. Genera instabilità e una competizione non sana tra i ricercatori, rendendo più complicate le relazioni interpersonali e le collaborazioni».

In che modo e da chi potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?

«Attraverso l’aumento dei fondi per sostenere i progetti, per l’acquisto della strumentazione e per il reclutamento del personale. Il capitale umano, in Italia, è molto buono. Basti pensare che nell’assegnazione degli ERC Consolidator Grants del 2022, gli italiani sono i secondi come numero di ricercatori vincitori, ma i laboratori italiani sono invece al sesto posto. La ricerca è costosa e spesso nel breve termine non porta risultati tangibili a causa di una cinetica lenta: gli investimenti di oggi avranno probabilmente effetto solo tra qualche decennio».

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Penso di sì, non solo in Italia, ma in generale in tutto il mondo occidentale. Il sentimento antiscientifico è diffuso in moltissimi ambiti e in tutti gli strati della società, spaziando dall’ostinato negazionismo del cambiamento climatico allo sciagurato movimento antivaccinista. Molto spesso chi fa ricerca non viene considerato maggiormente degno di fiducia di persone senza formazione, che diffondono verità alternative senza fondamento scientifico. La mia impressione è che internet e i social network abbiamo avuto un ruolo importante nel progressivo calo di fiducia nella scienza e mi auguro che le generazioni più giovani mostrino un’inversione di tendenza».

Se un giorno tuo figlio o tua figlia ti dicesse che vuole ricerca, come reagiresti?

«Se avessi figli in futuro, vorrei essere sempre di supporto e sostegno in qualsiasi decisione volessero prendere per le loro vite. La carriera del ricercatore è complessa e piena di ostacoli, ma la vita è una sola ed è importante seguire le proprie passioni e inclinazioni».

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita?

«Vorrei dormire in una tenda nel Namib, il deserto della Namibia. Ho letto che in un angolo del Namib viene riprodotta in loop la canzone “Africa” dei Toto».

Con chi ti piacerebbe andare a cena una sera e cosa ti piacerebbe chiedergli?

«Mi sarebbe piaciuto incontrare Margherita Hack, un personaggio incredibile dal punto di vista umano e scientifico».

Sei soddisfatto della tua vita?

«Sono soddisfatto di me e della mia vita, ma ho sempre lo sguardo rivolto al futuro».

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Contribuire attivamente alla ricerca è un gesto di fiducia nella scienza e un investimento per il futuro. Sapere che ci sono tante persone che aiutano i giovani a sostenere il proprio lavoro è per noi fondamentale. Grazie!».

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