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La misericordia infinita di Francesco

Era l’unico che poteva farlo, e l’ha fatto. Ha chiesto che escano dalle carceri i detenuti, e che entrino in una casa i profughi in fuga

La misericordia infinita di Francesco

Sì, papa Francesco era l’unico che poteva farlo, e l’ha fatto. Ha chiesto a tutto il mondo che escano dalle carceri i detenuti, e che entrino in una casa i profughi in fuga dalle guerre e dalla fame. Nella sua idea di “Giubileo della misericordia” non è andato per gradi, ha scelto di non essere un moderato. Ha bussato con forza alla porta, chiedendo a tutti i governi un’amnistia per i detenuti, e affidando ai suoi vescovi il compito di mobilitare tutti i sacerdoti, affinché ogni parrocchia accolga una famiglia di rifugiati. Francesco non si è fermato a considerare le difficoltà (burocratiche, politiche, economiche) per mettere in entrata e in uscita tutti questi esseri umani, ha visto soltanto la sofferenza di chi non ha più patria né casa, e la sofferenza di chi non ha la libertà.

Intanto qualcosa si sta muovendo, qualcosa sta cambiando. E si stracciano l’apatia e il quieto vivere. Ho letto con emozione che dall’Austria sono partite carovane di auto cariche di viveri per i profughi respinti dall’Ungheria e in marcia sulla lunga strada che porta al nord. Credo che l’appello di papa Francesco si sia congiunto con qualcosa che c’era già, che si è via via delineato in questi anni foschi: una ritrovata umanità, una fede laica nella possibilità di cambiare, e la volontà di costruire un futuro per tutti.

Ma il futuro si costruisce nella libertà che è specchio della democrazia, e non dobbiamo considerare remoto da noi il problema delle carceri. La parola “amnistia” non è la richiesta di un ennesimo decreto “svuota carceri”, ma è il messaggio che invita a ripensare il modello di società. Io credo che non sia un caso se il 54 per cento dei quasi sessantamila detenuti italiani abbia meno di 40 anni. Sono giovani, il nostro Paese non ha dato opportunità, e ha riempito di giovani le patrie galere.

In prigione, giovani e meno giovani vivono una vita falsa, ripetitiva, frustrata in partenza. Secondo dati Istat, poco più del 20 per cento dei detenuti è impegnato in un’attività lavorativa. Gli altri cosa fanno? Vivono in celle strette e disagevoli, si  annoiano, vanno a scuola di delinquenza. Ogni tanto si suicidano, spesso compiono atti di autolesionismo. Vorrei invitare a passare un po’ di tempo in carcere quelle persone che a faccia fresca dichiarano che “il carcere non è un hotel”. E’ vero che le prigioni moderne, a partire dalla fine del Settecento, si sono relativamente umanizzate e non condividono più gli orrori e le crudeltà inaudite delle carceri antiche, ma ugualmente dobbiamo chiederci  se abbia un senso – per i reati meno gravi – essere privati della libertà, e infilati in un sistema livellatore in cui proprio i più giovani, figli culturali della soggettività di massa, subiranno i danni maggiori.

Nell’antico Giubileo ebraico, che attuava un precetto del Vecchio Testamento, ogni cinquant’anni venivano condonati i debiti, le persone rientravano in possesso dei beni perduti, si liberavano gli schiavi. Non si sa quanto questo precetto venisse veramente attuato, ma non si può negarne la forza simbolica: l’uomo chiede di riprendersi la speranza, e si dispera se gli viene negata. Per questo fugge sui barconi della morte, per questo si uccide in carcere. 



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