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Il mio dottorato in Catalogna: esperienza formidabile

Quando si parla di "porto di mare", poche città rappresentano meglio di Barcellona questa espressione

Il mio dottorato in Catalogna: esperienza formidabile

Ci sono convinzioni che cambiano e si evolvono, naturalmente, fisiologicamente. E altre che restano immutate. Dopo appena tre mesi a Barcellona, arrivi a poche convinzioni, ma capisci subito che sono quelle che ti porterai dietro fino al tuo ultimo giorno e non le cambierai.

Innanzitutto non sei in Spagna. Sei in Catalogna. Ti ostini a dire agli altri e a te stesso che è come dire "sono in Puglia e in Italia". Ma non è così. Lo vedi, lo senti. La Spagna te la immaginavi piaciona, festaiola, rilassata, vacanziera e casinista. Una compilation di quello che abbiamo in Italia, in fondo. Dopo 5 anni di università, gli Erasmus spagnoli avevano lasciato questo ricordo. Ed è sempre la solita storia: conosci qualche parigino e pensi che tutti i francesi siano così; arrivi in Veneto e ti aspetti che siano tutti anti-meridionalisti. Poi la realtà, per fortuna, è ben più complessa.
La Catalogna è uno stato dentro uno stato. Senza entrare in questioni politiche: è proprio la gente che non ti quadra.

Parlano una lingua diversa. E non ditegli che il catalano è un dialetto o avrete una reazione simile a quella di Aldo, Giovanni e Giacomo nei "tre sardi".

Il catalano è bandiera e orgoglio, simbolo d'identità rivendicato ovunque, soprattutto dopo la campagna franchista per abolirlo del tutto; è ovunque, anche se genera situazioni tragicomiche come il recarsi all'ufficio immigrazione per registrare l'arrivo in Spagna e sentire il funzionario parlarti in catalano. A te, che già con lo spagnolo masticavi appena "Hola" e "Adios".

Parlano inglese. Bene. Sono sopravvissuto le prime tre settimane rispolverando il mio inglese universitario in disuso. Tre settimane sono sufficienti per iniziare a lanciarsi in qualche frase timida e sgrammaticata. Passato questo periodo, l'"itagnolo" si affina e si arriva ad affrontare problemi seri come congiuntivi e futuri.

Lavorano con rigore teutonico, hanno un senso della legalità svizzero e una puntualità inglese. Europei insomma. E non lo diresti mai, vedendo come riducono la Rambla ogni sabato sera.

Quando si parla di "porto di mare", poche città rappresentano meglio di Barcellona questa espressione. Ti dicono che troverai di tutto. E difatti poi lo trovi. Non pensavo esistessero davvero gli eschimesi, eppure ne ho conosciuto uno, qui.

Entri nella metropolitana. È pulita. Ordinata. Impossibile sbagliare treno o direzione. "A prova di idiota" come qualsiasi trasporto pubblico al mondo ti aspetti che dovrebbe essere. Sei al binario e vedi un conto alla rovescia per l'arrivo del prossimo treno. Siccome sei italiano, hai la malizia facile e pensi: "Si vabbè, ora stai a vedere che tra un minuto e quarantatre secondi arriva il treno". Sembra impossibile ma quando a quel conto alla rovescia mancano pochi secondi, il treno arriva per davvero. Non è uno scherzo. A molti italiani può sembrare fantascienza quello che per un normale cittadino europeo è semplice prassi. Ma è così. E per loro è giustamente motivo di vanto.

Al laboratorio sei solo uno studente di dottorato. All'inizio per giunta. Hai un progetto sulle spalle, ma in realtà il tuo lavoro è incasinare i campioni, fare errori stupidi e auto-sabotarti gli esperimenti: tutte e tre le cose ti riescono perfettamente, eppure nessuno mai perde la pazienza. Anzi. Ti aiutano perfino a cercare casa e a portare carte in giro per l'iscrizione all'anno accademico, mentre cerchi di capire quello ti dicono, in un laboratorio in cui gli spagnoli sono circa la metà e il resto sono italiani, russi, americani.

Poi i tre mesi passano, e ti chiedi: "Ma come ci sono finito qui, io che sarei dovuto andare in Spagna?"



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