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Neuroscienze

La sindrome da stanchezza cronica ha una causa genetica

Identificate otto regioni del genoma le cui varianti si associano ad una maggiore probabilità di sviluppare la malattia

Alla base della sindrome da stanchezza cronica sembrerebbe esserci la genetica. Le persone che sviluppano questo disturbo possiedono infatti alcune varianti genetiche che aumentano, in seguito ad un fattore scatenante, le probabilità di sviluppare la malattia. Ad affermarlo è uno studio pubblicato in preprint da un gruppo di ricercatori dell’Università di Edimburgo. Si tratta di un risultato preliminare ma significativo, che per la prima volta fornisce indizi solidi sul ruolo del DNA e contribuisce a superare l’idea, a lungo diffusa, di una malattia esclusivamente “psicologica”.

IDENTIKIT DELLA MALATTIA

La sindrome da stanchezza cronica, nota anche come encefalomielite mialgica/sindrome da affaticamento cronico (ME/CFS), è una patologia che si manifesta con sintomi quali stanchezza estrema, difficoltà cognitive, dolore muscolare e peggioramento dopo sforzo fisico o mentale. Spesso compare dopo un’infezione e presenta analogie con il Long Covid. Purtroppo, a causa della varietà dei sintomi, non esiste un test diagnostico specifico. Non a caso la diagnosi si basa sull’esclusione di altre condizioni. Per molti anni la malattia è stata stigmatizzata e ridotta a problema psichico. La scarsità di ricerca e la mancanza di criteri diagnostici omogenei hanno inoltre rallentato il riconoscimento di una base biologica.

OTTO REGIONI GENOMICHE COINVOLTE

Uno dei progetti che nel corso di questi anni ha cercato di indagare le basi biologiche della malattia è DecodeME, sviluppato con l'intento di identificare i meccanismi che portano allo sviluppo della sindrome da stanchezza cronica. Grazie al coinvolgimento diretto dei pazienti -più di 26 mila persone hanno partecipato, di cui 21 mila con diagnosi confermata- gli autori dello studio hanno analizzare il DNA di oltre 15 mila individui affetti dal disturbo con quello della popolazione sana raccolto nella UK Biobank. Dall’analisi sono emerse otto regioni del genoma che presentano differenze significative. Alcune si trovano accanto a geni già noti per il loro ruolo biologico:

  • OLFM4, che contribuisce alle difese contro i microrganismi
  • ZNFX1, coinvolto nella risposta ai virus a RNA
  • CA10, associato al dolore cronico

PROSPETTIVE FUTURE

La scoperta non significa che esista un “gene della malattia” ma che chi possiede alcune varianti genetiche è maggiormente predisposto a svilupparla, soprattutto se entra in gioco un fattore scatenante come un’infezione. Come avviene per altre malattie complesse, i geni spiegano solo una parte del rischio individuale. La vera novità è che lo studio dimostra in modo inequivocabile che la malattia ha basi biologiche e non psicologiche. Non solo, ora esiste una prima mappa genetica da cui partire. Per i pazienti questo rappresenta un riconoscimento atteso da anni. Per la comunità scientifica, invece, è un punto di svolta che apre la strada a nuove ricerche per individuare marcatori utili alla diagnosi e, in futuro, possibili trattamenti mirati.

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