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Caterina Fazion
pubblicato il 20-12-2022

Nelle carceri italiane è garantito il diritto alla salute?



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Risolvere la carenza di personale e aumentare l’assistenza sanitaria per rilanciare la sanità penitenziaria. Solo così le principali problematiche di salute potranno essere attenuate e il diritto alla salute garantito

Nelle carceri italiane è garantito il diritto alla salute?

Ogni anno, nelle carceri italiane, transitano oltre 100mila persone, alle quali deve essere costituzionalmente garantito il diritto alla salute. Carenza di personale sanitario e diffusione massiccia di svariate problematiche tra i detenuti, come tossicodipendenza e malattie psichiatriche, rende questo obiettivo molto complesso. Quali altri ostacoli impediscono un buon livello di assistenza sanitaria nella realtà carceraria? Come si può agire per migliorare il livello di salute in questo ambiente? 

 

LA CARENZA DI PERSONALE SANITARIO

A gravare sull’assistenza sanitaria all’interno delle carceri, sono soprattutto la consistente carenza di personale sanitario di formazione specifica, le difficoltà operative per il personale infermieristico e l’assenza di un reale coordinamento tra le diverse regioni. La pandemia non ha fatto altro che esasperare questo quadro di criticità già esistenti, sottraendo energie e risorse alle attività sanitarie nei penitenziari, mettendo a rischio la salute dei detenuti.

«Il COVID-19 ha colpito la medicina penitenziaria non solo per il numero di contagi e le complesse attività di prevenzione e vaccinazione, ma anche per l’effetto dirompente della pandemia su tutto l’assetto sanitario nazionale e in particolare sulla medicina territoriale di cui la sanità penitenziaria fa parte», sottolinea Luciano Lucanìa, Presidente SIMSPe. «Il passaggio delle competenze dal dicastero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale, avvenuto nel 2008 in modo disordinato, ha provocato una frammentazione tra i servizi che le diverse regioni sono in grado di erogare. A questo si aggiunge il complesso problema emerso dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nel 2015: i soggetti in misura di sicurezza avrebbero dovuto confluire nelle neo istituite Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), ma proprio le carceri ancora ospitano detenuti in attesa di REMS o altra sistemazione residenziale. Queste condizioni incidono non solo sui servizi, ma anche sulla disponibilità dei medici ad accettare di lavorare in un sistema che in questo momento presenta gravissime criticità».

La salute tradita nelle carceri italiane

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SUICIDIO, NUMERI IN AUMENTO

Da non sottovalutare, quando si parla di sanità penitenziaria, è il numero di suicidi che si registrano annualmente. Da gennaio a novembre 2022 sono 79 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane. Si tratta di un numero impressionante, senza paragoni in epoca recente. Su una media annua di circa 53.500 detenuti, i suicidi sono stati 62 nel 2020 e 58 nel 2021. Sebbene dietro ogni caso di suicidio possano esserci molteplici fattori personali, il numero di persone che si toglie la vita in carcere potrebbe anche essere una spia di un’inadeguata assistenza sanitaria.

«Questo dato deve farci riflettere – prosegue Luciano Lucanìa – ma ancora più rilevanti sono i dati che abbiamo in modo parziale o che non possiamo reperire. Bisognerebbe sapere, ad esempio, quanti siano i detenuti che hanno tentato il suicidio senza riuscirci. O anche le statistiche su italiani e stranieri in custodia cautelare e in espiazione di pena, le condizioni nelle quali si vive in carcere, tra sovraffollamento, promiscuità, con sentimenti di disperazione e frustrazione. In queste condizioni non è semplice identificare chi abbia realmente una malattia mentale che possa portare al suicidio. Queste lacune non si colmano con la burocrazia, ma con un’azione di sistema, dove SIMSPe e il personale sanitario possono partecipare. Ma anche questo non basta: il detenuto, infatti, va considerato come un soggetto che, prima e dopo il periodo in carcere, vive sul territorio: per questo ci sarebbe bisogno di una psichiatria territoriale solida, con maggiore continuità assistenziale, collaborazione e raccordo tra ambiente carcerario ed esterno. Serve una nuova cultura del carcere, basata su una visione che consenta al detenuto di vivere l’esperienza in maniera corretta, proseguendola anche fuori, per non perdere il senso di tutto il lavoro e i progressi svolti durante il periodo di detenzione».

 

PROBLEMI ODONTOIATRICI

A gravare sulla salute dei detenuti in maniera molto significativa sono anche i problemi odontoiatrici, spesso sottovalutati. Il 30-40% dei detenuti è tossicodipendente e altrettanti fanno uso di psicofarmaci, elementi che portano a una soglia del dolore più elevata con la conseguente insensibilità al dolore e disinteresse per eventuali cure mediche. Per questi motivi nelle carceri è presente un numero molto elevato di detenuti che necessita di cure odontoiatriche, spesso anche molto più ampie e complesse rispetto alla società civile. Anche il bruxismo (il digrignamento dei denti) interessa il 30% della popolazione generale ma sale rapidamente al 70% nella popolazione penitenziaria, e può rappresentare l’emblema del livello di tensione emotiva dei soggetti privati della libertà. Considerando il basso reddito dei detenuti che per il 90% dei casi è inferiore al livello della soglia di povertà, la branca dell’odontoiatria pubblica dovrebbe essere potenziata con professionisti, strumentazione e strutture adeguate, specifica flessibilità nell’offerta di prestazioni e, in particolare, di riabilitazione protesica per i soggetti edentuli, ovvero privi di denti.

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EPATITE C e HIV: ESEMPI POSITIVI

In carcere, tuttavia, non mancano esempi che testimoniano alcuni importanti progressi nell’ambito sanitario. «Gli screening effettuati per Epatite C e Hiv sui detenuti, considerati popolazione a rischio – conclude Lucania –, hanno permesso di individuare i soggetti infettati che hanno potuto così iniziare le terapie e i trattamenti più adeguati. Gli stessi detenuti si sono rivelati collaborativi, a seguito delle attività informative che hanno permesso loro di comprendere il contributo offerto a tutela della loro salute. La pandemia ha interrotto questo processo virtuoso e dopo il lungo stop dovremo ripartire con processi di screening, informazione e formazione».

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Caterina Fazion

Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile


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