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Agnese Collino
pubblicato il 28-09-2022

Rabbia: la malattia dimenticata



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Giornata Mondiale contro la Rabbia: che cos'è e come si manifesta? Quali animali possono ospitare il virus? Quante persone ne sono vittime? Come difenderci?

Rabbia: la malattia dimenticata

C’è una malattia tanto atavica e tremenda da essersi guadagnata il nome di una delle emozioni più distruttive: la rabbia. Tanto disumana da essere imparentata con uno dei vizi capitali (l’ira), tanto immaginifica da aver fornito l’ispirazione per personaggi spaventosi come vampiri, licantropi e zombie, si tende a pensare alla rabbia come ad una malattia ormai del passato e che non ci riguarda più. Anzi, alla rabbia si tende a non pensare affatto.

 

LA RABBIA NEL MONDO

Eppure oggi, 28 settembre, si celebra la quindicesima Giornata Mondiale contro la Rabbia, inizialmente istituita dalla Global Alliance for Rabies Control (GARC) per sensibilizzare i cittadini di tutto il mondo verso la prevenzione di una malattia che continua a uccidere tra le 50 e le 60.000 persone ogni anno, in 150 Paesi. Attualmente la stragrande maggioranza delle morti per rabbia si verificano in Africa e Asia, anche in virtù delle difficoltà economiche e logistiche nella somministrazione di vaccini e profilassi post-esposizione. Ma come abbiamo ormai imparato durante questi anni di pandemia, in un mondo globalizzato nessuna malattia è davvero lontana, soprattutto se non la conosciamo bene. E conoscere la rabbia può davvero fare la differenza, perché l’unico modo di difendersene è riconoscere le situazioni di rischio e ricorrere ai presidi medici in tempo.

 

CHE COS’È LA RABBIA E COME SI TRASMETTE

Che cos’è dunque la rabbia? Si tratta di una zoonosi, e cioè di una malattia infettiva (provocata dal Rabdovirus) trasmessa dagli animali all’uomo, principalmente tramite morso, o tramite il contatto di saliva infetta con una nostra ferita aperta. Un virus dall’inquietante forma a proiettile, che penetrato nel corpo raggiunge i nervi periferici e da lì lentamente risale -1 o 2 centimetri al giorno- per arrivare al cervello.

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Virus. Protagonisti di grandi tragedie, ma anche alleati per la salute

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I SINTOMI E I TEMPI DELL'INFEZIONE

Più il morso dell’animale infetto è vicino a questa prima, importante destinazione del Rabdovirus, più velocemente subentreranno i sintomi della malattia (con una tempistica così variabile che può andare da una settimana a un anno): il virus provoca infatti una grave encefalite, e sovverte alcuni meccanismi fondamentali come quelli che controllano la salivazione e la deglutizione, il linguaggio, il movimento, il respiro. Da qui il virus può dare vita a due forme di rabbia.

 

LE DUE FORME DI RABBIA

La più tipica è la rabbia furiosa, nella quale il paziente sviluppa agitazione, disorientamento, allucinazioni e terrore, spasmi, ipersalivazione e uno dei sintomi più caratteristici di questa malattia, l’idrofobia (una vera e propria repulsione, tanto fisica quanto mentale, verso i liquidi): al termine del suo calvario, il paziente muore per arresto cardio-circolatorio. La rabbia si può alternativamente presentare in forma paralitica, che senza le violente manifestazioni della forma furiosa porta comunque a una paralisi progressiva, al coma e alla morte. Una volta giunto nel cervello, però, il viaggio del Rabdovirus non è comunque concluso: per tentare di propagarsi al prossimo ospite prima della morte di quello attuale, il virus discende alle ghiandole salivari e alla saliva. Non è infatti un caso che molti degli animali infetti diventino particolarmente aggressivi e più inclini ad avvicinarsi all’uomo e a mordere, concludendo così il ciclo della malattia; e non è un caso che le persone malate letteralmente “schiumino di rabbia”, non riescano a deglutire l’eccesso di saliva e siano terrorizzate all’idea di bere un bicchiere d’acqua.

 

DAGLI ANIMALI ALL'UOMO

Una malattia tanto terrificante quanto antica, probabilmente la più antica di cui abbiamo notizie, e per secoli l’unica sulla cui origine animale fossimo certi. Un’infezione terribile e paradossale: è capace di colpire praticamente tutti i mammiferi, anche se la principale causa di morti umane per rabbia è dovuta proprio all’animale di cui più ci fidiamo: il cane. Non solo: è una malattia che non si trasmette praticamente mai da uomo a uomo (anche nel culmine dei sintomi, i pazienti non tendono a mordere), e che di fatto continua a passare alla specie umana dagli animali, in un continuo spillover. Una patologia che, come afferma l’OMS, se scoperta una volta che i sintomi siano già cominciati è tragicamente “mortale al 99%, ma prevenibile al 100%” qualora trattata subito dopo il contagio o addirittura eliminata dall’ecosistema tramite vaccino: proprio per questo conoscerla, e sapere cosa fare qualora ci si trovasse a rischio di infezione, può fare davvero la differenza.

 

LA STORIA DEL VACCINO ANTIRABBICO

E proprio nel vaccino sta un ultimo paradosso riguardante la rabbia. Il padre della teoria dei germi, Louis Pasteur, dopo essersi dedicato a sviluppare due vaccini per malattie animali, scelse proprio la rabbia come prima malattia umana verso cui indirizzare la sua attenzione: nel 1885 riuscì a mettere a punto il vaccino antirabbico, di fatto rendendo l’umanità capace di prevenire una seconda malattia dopo il vaiolo. Eppure il fine di Pasteur non era forse del tutto disinteressato. La rabbia infatti non era lontanamente la patologia che nella Francia dell’epoca causava più morti: perché allora l’eminente scienziato decise di partire proprio da qui?

 

"LA PIÙ TEMUTA DELLE MALATTIE"

Come spiegò Emile Roux, uno dei più stretti collaboratori di Pasteur, se lui “lo ha scelto come obiettivo di studio era soprattutto perché il virus della rabbia è sempre stato considerato come il più subdolo e misterioso di tutti, e anche perché nella mente di tutti la rabbia è la più terrificante e temuta delle malattie”. Bisogna infatti considerare, come raccontano Bill Wasik e Monica Murphy nel libro Rabid (Penguin Books), che “per ciascuna delle poche centinaia di morti da rabbia registrate ogni anno in Francia, c’erano diversi francesi – più frequentemente, bambini – che erano stati morsicati [da animali selvatici di cui non si conosceva lo stato di salute] e che, assieme ai loro cari, trascorrevano mesi nell’agonia dell’incertezza: la loro ferita li avrebbe portati a una macabra morte da idrofobia?”. La scelta insomma era caduta sul microbo più temuto, ma per un motivo abbastanza personale e prosaico: Pasteur puntava ad attirare la massima attenzione dei medici sul suo lavoro e sulle sue teorie riguardanti la vaccinazione. Ci riuscì, anche perché il vaccino che sviluppò era così efficace da poter essere impiegato non solo per l’immunizzazione di persone e animali, ma anche come strategia di profilassi qualora un soggetto fosse stato da poco contagiato dal virus.

 

LA PROFILASSI IN CASO DI MORSO

Una procedura utilizzata ancora oggi, utile praticamente in tutti i casi in cui non siano già subentrati sintomi, e che prevede un accurato lavaggio della ferita, l’iniezione del vaccino e la somministrazione di immunoglobuline, per offrire una protezione ulteriore dando più tempo al corpo per montare una adeguata difesa immunitaria. Non a caso, la Giornata Mondiale contro la Rabbia cade proprio il 28 settembre, giorno in cui Pasteur morì nel 1895, 10 anni esatti dopo averci finalmente resi capaci di resistere alla più temibile delle malattie.

 

LA RABBIA IN ITALIA OGGI

Proprio grazie a vaccinazioni e profilassi, in Italia i morti per rabbia sono passati dai 50-80 che ancora si verificavano ogni anno all’indomani della Seconda Guerra Mondiale a zero fin dai primi anni Settanta (anche se l’ultimo paziente morto per la malattia endemica in Italia risale già a qualche anno prima). Anche per quanto riguarda gli animali (selvatici e non) l’Italia è attualmente considerata indenne dal virus, nonostante lo status rabies-free sia stato riconquistato solo nel 2013 dopo che alcune volpi infette provenienti da Slovenia e Croazia hanno diffuso la malattia in Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino tra il 2008 e il 2011 (epidemia poi contenuta tramite vaccinazione orale di questi animali).

 

GLI ANIMALI CHE OSPITANO IL VIRUS

Per quanto infatti siano i cani i più frequenti responsabili dei contagi umani, non sono gli unici ospiti ricorrenti per il Rabdovirus, che può essere presente anche in pipistrelli, gatti, bovini, tassi, faine, scimmie e altre specie ancora. Insomma, per quanto lontana nel tempo e nello spazio possa sembrarci, la rabbia resta una malattia molto pericolosa e probabilmente non eradicabile, che può quindi in alcuni momenti ripresentarsi anche solo a causa degli spostamenti della fauna selvatica. O che è possibile contrarre in viaggio, anche nelle sue estreme conseguenze, come è accaduto nel 2019 a un uomo pugliese morto per un’infezione da rabbia contratta a Zanzibar. E tuttavia l’OMS si è posta un obiettivo ambizioso: quello di raggiungere la soglia di zero morti da rabbia in tutto il mondo entro il 2030.

 

I CONSIGLI PER AFFRONTARLA

Cosa possiamo quindi fare per contribuire a tagliare questo traguardo, e per tenerci al sicuro dal Rabdovirus?

  • innanzitutto, evitiamo il contatto con animali selvatici o randagi
  • ed evitiamo inoltre di adottarli come animali da compagnia (un’attenzione che, per quanto a volte difficile da rispettare, ci difende anche da altri tipi di malattie)
  • conduciamo sempre i nostri cani al guinzaglio
  • segnaliamo al veterinario eventuali comportamenti anomali nei nostri amici a quattro zampe
  • se si viaggia in zone a rischio con il proprio animale domestico, questo deve essere vaccinato da almeno 21 giorni
  • se veniamo morsi da un animale in una zona a rischio, laviamo la ferita subito e abbondantemente e rechiamoci al pronto soccorso, specificando l’accaduto e fornendo ogni informazione in nostro possesso sull’animale da cui siamo stati colpiti, così che i medici possano valutare il trattamento di profilassi.

Poche accortezze, che ancora oggi possono però salvarci la vita.

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Agnese Collino
Agnese Collino

Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica


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