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Chiara Miriam Maddalena
pubblicato il 06-04-2020

A caccia di nuovi marcatori per curare il retinoblastoma



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Proteine rilasciate dalle cellule di retinoblastoma come marcatori di prognosi e terapia: la ricerca di Marta Colletti

A caccia di nuovi marcatori per curare il retinoblastoma

Il retinoblastoma è il tumore oculare più diffuso in età pediatrica, che origina a partire dalle cellule della retina. Il rischio di sviluppare questa neoplasia aumenta se in famiglia sono presenti altri casi di malattia nella forma ereditaria, legata cioè a una mutazione del gene RB1, che può venire trasmessa da un genitore ai figli. La diagnosi di retinoblastoma spesso si verifica in fase avanzata (con la comparsa di segni visibili, come un riflesso biancastro nella pupilla): in alcuni casi l’asportazione dell’occhio è l’unica opzione terapeutica possibile, ma per saperlo occorre effettuare una biopsia. Per questi motivi diventa importantissimo sviluppare strumenti alternativi in grado di predire lo sviluppo di malattia e scegliere i migliori trattamenti.

Su questo aspetto si concentra il lavoro di Marta Colletti, ricercatrice dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, che sta sviluppando per il suo progetto di ricerca per il secondo anno consecutivo grazie al supporto di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

Marta, parlaci del progetto di ricerca che seguirai quest’anno.

«Il mio progetto si pone l’obiettivo di identificare nuove proteine che possano funzionare come marcatori biologici nel retinoblastoma, in grado cioè di valutare la prognosi e la risposta alla terapia. In particolare, studieremo le proteine contenute all’interno degli esosomi, delle vescicole rilasciate dal tumore, che sono implicate nella comunicazione tra le cellule».


In che modo gli esosomi possono garantire la migliore scelta terapeutica?

«Nel caso del retinoblastoma, per valutare la strategia terapeutica più opportuna, occorre analizzare dei campioni di tessuto tumorale, ovvero effettuare una biopsia. Questi campioni, tuttavia, non sono facilmente prelevabili a causa del rischio di disseminazione di cellule cancerose all’interno dell’occhio».


Quindi occorre pensare a delle strategie alternative per ottenere informazioni sul tumore, giusto?

«Esattamente. Durante il progetto effettuerò degli studi utilizzando linee cellulari provenienti dal tumore primitivo e dalle metastasi di retinoblastoma. Successivamente preleverò dei campioni provenienti dall’umore acqueo, cioè il liquido salino che si trova tra la cornea e il cristallino, da pazienti in cura farmacologica per identificare nuove molecole che possano rappresentare dei marcatori di risposta alla terapia».


Quali sono le prospettive future derivanti dal tuo progetto?

«L’identificazione di nuove proteine, coinvolte nello sviluppo e nella progressione del retinoblastoma e nella formazione delle metastasi nell’umor vitreo, consentirà una più semplice identificazione delle forme più aggressive. In questo modo si potranno mettere in atto terapie mirate e scegliere come intervenire per prevenire la disseminazione metastatica».

 

Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Sì, sono stata a Bruxelles, in Belgio, al De Duve Institute».

 

Cosa ti ha spinta ad andare?

«Mi hanno spinta a partire la curiosità e la voglia di imparare cose nuove, oltre al desiderio di conoscere una realtà diversa e la voglia di perfezionare l’inglese».


Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«Solo ricordi positivi soprattutto perché mi ha aperto la mente. Quando sono tornata in Italia e ho ricominciato a lavorare in un laboratorio universitario, ho fatto fatica a causa delle difficoltà che si riscontrano ancora nel nostro Paese rispetto all’estero».


Ti è mancata l’Italia?

«Sì. Mi mancavano il sole, gli amici e la famiglia. Tuttavia, a livello lavorativo, stavo benissimo».


Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare.

«Incornicerei sicuramente il momento in cui ho saputo che il mio lavoro di dottorato, del quale sono primo autore, era stato scelto per essere pubblicato su una importante rivista scientifica di settore. Inoltre, incornicerei il momento in cui per la prima volta, nel 2015, Fondazione Umberto Veronesi mi ha comunicato che avrebbe finanziato la mia borsa di ricerca. Quello è stato un momento di grande soddisfazione. Ancora più grande è quella che ho provato quando ho scoperto di aver ottenuto il mio terzo finanziamento per quest’anno».


Un momento, invece, che vorresti dimenticare?

«Non ne ho uno in particolare perché, in realtà, ce ne sono diversi. La maggior parte dovuti a delusioni per il non riconoscimento del lavoro svolto».


Come ti vedi fra dieci anni?

«Tra dieci anni spero di essere ancora in un laboratorio, magari con dei progetti di ricerca scritti da me e finanziati a mio nome».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Mi piace la sua continua evoluzione. Mi piace svegliarmi la mattina e avere sempre cose diverse da fare e da imparare. Ogni giorno è diverso dagli altri ed è un’avventura continua».

 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La precarietà che non offre certezze per il futuro».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Passione, pazienza, sacrificio e speranza».

 

Marta, qual è per te il senso che dà un significato alle tue giornate lavorative?

«La convinzione di fare qualcosa che, un domani, porterà a stare meglio qualcuno».

 

In che modo e da chi potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?

«Penso che la figura del ricercatore e il concetto del fare ricerca siano, in generale, poco conosciuti. Il Governo potrebbe agevolare i ricercatori stanziando maggiori fondi, riconoscendo l’importanza della ricerca per lo sviluppo di un Paese e per il futuro di tutti».

 

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Non penso ci sia un sentimento antiscientifico in Italia, al contrario, percepisco fiducia nella ricerca. Tuttavia, trovo che, in generale, non ci si rende conto del reale sforzo che questa richiede in termini economici e di capitale umano».

 

Hai qualche hobby o passione al di fuori dell’ambito scientifico?

«Sì, mi piace molto leggere, cucinare e ballare».

 

Hai famiglia?

«Sì».

 

Quando è stata l’ultima volta in cui ti sei commossa?

«Quando è nata mia figlia, il momento più bello della mia vita».

 

Se un giorno tua figlia ti dicesse che vuole fare la ricercatrice, cosa le diresti?

«Le direi che è il lavoro più bello e stimolante del mondo ma anche molto duro, poco riconosciuto in Italia e, purtroppo, precario».

 

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.

«Realizzare un sogno che feci tanti anni fa: andare in Tibet».

 

La cosa di cui hai più paura e perché.

«Ho paura che mia figlia si ammali o che possa soffrire».

 

Sei soddisfatto della tua vita?

«Sì, mi ritengo soddisfatta».

 

La cosa che più ti fa arrabbiare.

«La falsità».

 

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Alle persone che scelgono di donare a favore della ricerca dico grazie, perché hanno capito che la ricerca è una risorsa comune e che le scoperte che ne derivano possono migliorare la vita di tutti».

 


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