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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 18-07-2018

Dai tumori si guarisce di più dove funzionano le reti oncologiche



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Per arginare i viaggi della speranza, occorre prendere in carico ogni paziente dal giorno della diagnosi. La soluzione sta nelle reti oncologiche

Dai tumori si guarisce di più dove funzionano le reti oncologiche

Per capire cosa sono e a cosa servono le reti oncologiche, partiamo dalle storie di chi si ammala di tumore. A Massafra, in provincia di Taranto, Vittoria ha scoperto di avere un tumore del polmone e, per decidere a quale centro del Nord Italia affidarsi, dopo tre settimane vissute in attesa dell'esito dell'esame istologico, ne ha parlato coi suoi colleghi di reparto: lei che è infermiera, ma non in un reparto di oncologia medica. Non meno tortuoso è stato il percorso toccato a Giovanna, 22 anni,che s'è ammalata a pochi chilometri di distanza: sarcoma di ewing la diagnosi, per fare luce sul percorso terapeutico da intraprendere s'è dovuto muovere lo zio medico, «perché un tumore come il mio qui non lo avevano mai visto, probabilmente». I cognomi delle due protagoniste mancano per ragioni di riservatezza, ma il loro vissuto è ordinaria amministrazione per chi scopre di avere un cancro in Puglia: così come in Basilicata, in Campania, in Calabria e in Sicilia. Un conto è ricevere la diagnosi in Veneto o in Lombardia, un altro nel Mezzogiorno. Non si spiegherebbe altrimenti perché ogni anno quasi centomila italiani ammalati di cancro scelga di curarsi lontano dal luogo di residenza.


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L'IMPORTANZA DELLE RETI ONCOLOGICHE

Vero che le opportunità terapeutiche, quando si parla di terapie farmacologiche, sono identiche in tutte le regioni. Ma il problema è più a valle del percorso, in questo caso in salita. Un malato di cancro, quando riceve una diagnosi, ha bisogno di un supporto psicologico e informativo. Gli esperti parlano di «presa in carico», ma in realtà si tratta di prendere per mano il paziente (e la sua famiglia) per portarlo verso il percorso terapeutico più efficace. Per la sostenibilità del servizio sanitario nazionale, l'eccellenza non può essere garantita a tutte le latitudini. «Quando si ha un tumore che non può essere curato nella propria regione, occorre però che questa, attraverso i suoi ospedali, sia in grado di guidare il paziente verso la soluzione per lui più efficace», afferma Oscar Bertetto, direttore della rete oncologica del Piemonte e della Valle d’Aosta: attiva ormai da vent'anni.

LE REGIONI ORGANIZZATE CON UNA RETE ONCOLOGICA

Eppure, nel 2018 e nonostante il Ministero della Salute abbia definito questo come il «miglior modello di cura per l'oncologia», sono soltanto 7 le regioni che si sono organizzate in questo modo: oltre al Piemonte e alla Valle d'Aosta, la Lombardia (che da un anno però attende la nomina del nuovo coordinatore), il Veneto, la Toscana, l'Umbria, la Liguria e la provincia autonoma di Trento. Pronte a partire sono la Puglia e la Campania, che dovrebbero muoversi secondo questi canoni a partire dall'autunno. Tutte le altre, al momento, esistono soltanto sulla carta. Eppure ci sono le statistiche oggi a certificare come la sopravvivenza sia più alta tra i pazienti colpiti da un tumore nelle regioni in cui sono attive le reti oncologiche.

MENO VIAGGI DELLA SPERANZA?

I vantaggi legati alla loro istituzione sono molteplici. Dove queste funzionano, i tassi di adesione agli screening sono più alti e, una volta che ci si è ammalati, i pazienti possono curarsi vicino al proprio domicilio (se non in casi molto complessi), gli ospedali sono meno congestionati (ci si reca per i controlli e per le terapie più complesse) e ne guadagnano pure le casse delle singole regioni, in cambio peraltro di una migliore offerta di servizi di assistenza sanitaria sul proprio territorio. Questo si traduce in un numero ridotto e per certi versi inevitabile di pazienti che scelgono di curarsi in un'altra regione: a dispetto di quanto accade invece nel Meridione. Partire non è sempre necessario, perché di centri in grado di assicurare un'assistenza avanzata ce ne sono diversi: con le fisiologiche differenze dovute al tipo di tumore. Ma molte volte è l'organizzazione a difettare e a rendere per il paziente più semplice, oltre che rassicurante, decidere di curarsi altrove. In questi casi, per trasferire una persona da una regione a un'altra, c'è bisogno di una rete tra le reti: ovvero di una sorta di registro accessibile da tutti i centri, che permetta allo specialista che ha ultimato la diagnosi di indicare al paziente dove portare avanti le terapie. «Per farlo, occorre che tutte le regioni si mettano al passo e sopratutto che lo sviluppo delle singole reti segua un copione comune - afferma Pierfranco Conte, direttore dell'oncologia medica 2 dell'istituto Oncologico Veneto di Padova, membro del comitato scientifico della Fondazione Umberto Veronesi e presidente di Periplo: associazione di oncologi che lavora per integrare l'assistenza a livello territoriale e favorire l'omogeneizzazione delle cure lungo la Penisola -. Fondamentale, in questo senso, è la messa a punto dei piani diagnostici e terapeutici assistenziali, i Pdta: con i dovuti strumenti di valutazione, rappresentano lo strumento per offrire un'assistenza di alto livello e verificare che ogni paziente venga seguito nel modo più opportuno».

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DAL SENO AL POLMONE

La formula delle reti ha preso piede a partire dalla gestione del tumore al seno, che per numeri e modello organizzativo (screening e breast unit) è stato il primo per cui s'è cercato di uniformare l'assistenza sanitaria. I risultati sono oggi considerati piuttosto soddisfacenti, anche se sono ancora diverse le regioni che mostrano una disomogeneità nei dati: confrontando le procedure chirurgiche con quelle chemioterapiche, a vantaggio di queste ultime. Il confronto riproduce uno scenario piuttosto diffuso nel Mezzogiorno: chi può va a operarsi altrove (cercando sopratutto i centri con i più alti volumi di intervento), per poi portare avanti le cure successive in loco (contando sull'uniformità dei protocolli). Adesso l'attenzione degli oncologi, che poco alla volta puntano a costituire Pdta omogenei per tutte le malattie oncologiche, è rivolta al tumore del polmone«I cambiamenti terapeutici in atto necessitano di un approccio diagnostico nuovo, in modo da poter contare anche su altre opzioni terapeutiche: come i farmaci a bersaglio molecolare e l'immunoterapia», per dirla con Silvia Novello, responsabile dell'unità di oncologia polmonare dell'ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassnano e ordinario di oncologia medica all'Università di Torino.


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NE GUADAGNA PURE LA RICERCA 

«Le reti sono fondamentali anche per la ricerca poiché offrono la possibilità di fare squadra, in modo da proporsi come soggetto unico e completo nei confronti dei promotori della ricerca clinica: istituzioni sanitarie, organizzazioni no profit e industria - afferma Paolo Pronzato, direttore di dipartimento di oncologia 2 all’ospedale San Martino di Genova, nonché della rete ligure -. Fondamentale è l’osservazione di ciò che accade nella vita reale. Molto spesso i vantaggi osservati negli studi sono relativi a popolazioni limitate e selezionate, che non corrispondono completamente alla popolazione dei pazienti, che invece è tenuta sotto controllo dalle reti oncologiche. Con le reti possiamo avere qualcosa di più rispetto alle ricerche tradizionali». 

 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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