In caso di sospetto tumore al seno ereditario, sono sette i geni che andrebbero sistematicamente testati: BRCA1, BRCA2, PALB2, RAD51C, RAD51D, BRIP1 e TP53. Ad affermarlo sono le nuove raccomandazioni dell'ESMO Precision Oncology Working Group (European Society for Medical Oncoloy), che invitano a un uso più mirato della genetica in oncologia. Un’indicazione destinata a ridimensionare l’impiego indiscriminato di pannelli troppo ampi e dalla dubbia utilità clinica.
QUANDO IL TUMORE É QUESTIONE DI GENETICA
Avere mutazioni in alcuni geni specifici aumenta il rischio di sviluppare un tumore al seno, soprattutto in giovane età. I più noti sono BRCA1 e BRCA2, divenuti famosi anche grazie alla scelta preventiva di Angelina Jolie, che ha deciso di sottoporsi a mastectomia e rimozione delle ovaie per ridurre il rischio di ammalarsi. Ma c'è di più: in caso di diagnosi, conoscere esattamente la mutazione associata alla malattia può essere molto utile per orientare le terapie. Negli ultimi anni, grazie all’evoluzione delle tecniche di sequenziamento del DNA, sono stati identificati nuovi geni associati a una predisposizione ereditaria al tumore. E la possibilità di analizzare il genoma a costi sempre più contenuti ha portato a un aumento significativo dei test genetici anche al di fuori dei contesti specialistici. Ma questo non è sempre un bene: testare tutto e tutti, senza una reale indicazione, rischia di creare più problemi che benefici.
I RISCHI DEL "CERCARE TROPPI GENI"
Proprio per la capacità di analizzare il Dna con relativa facilità, ultimamente si è andato diffondendo l'approccio del “più è meglio”: pannelli genetici sempre più ampi, capaci di analizzare decine di geni in un’unica indagine. Ma testare molti geni non significa automaticamente avere informazioni utili. In assenza di dati solidi sul rischio reale associato a certe mutazioni, si rischia di generare risultati ambigui o difficili da interpretare, alimentando ansia e incertezza. Le conseguenze non riguardano solo chi si sottopone al test: una mutazione dubbia può attivare percorsi diagnostici e scelte preventive anche per i familiari, con un impatto psicologico importante e spesso non necessario. In alcuni casi si può arrivare a interventi invasivi senza prove di efficacia reale. A questo si sommano i costi per il sistema sanitario e il rischio di disperdere risorse preziose. Il punto, quindi, non è quanti geni possiamo testare, ma quali è davvero utile conoscere, dati alla mano.
TESTARE 7 GENI
Ed è partendo da questa incertezza che l'ESMO Precision Oncology Working Group ha provato a fare chiarezza. Secondo le nuove raccomandazioni degli esperti sono solo sette i geni che dovrebbero essere sistematicamente inclusi nei pannelli genetici per il tumore al seno: BRCA1, BRCA2, PALB2, RAD51C, RAD51D, BRIP1 e TP53 (quest’ultimo solo nelle donne con diagnosi prima dei 40 anni). Si tratta di geni per i quali esistono prove sufficienti che una sorveglianza attiva, interventi preventivi o diagnosi precoce possano ridurre in modo significativo la mortalità. Al contrario gli oncologi europei sconsigliano l’inclusione routinaria di CHEK2 e ATM, mutazioni quasi esclusivamente ai tumori ormono-sensibili e con benefici preventivi incerti.
Stessa cautela per i geni come NF1, STK11, PTEN e CDH1, la cui analisi dovrebbe essere riservata solo a pazienti con caratteristiche cliniche specifiche o forte familiarità, e comunque sempre dopo valutazione da parte di un genetista clinico. Indicazioni, quelle di ESMO, che rappresentano un invito a riportare la genetica oncologica all’interno di un quadro di reale utilità clinica e sanità pubblica.