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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 13-10-2017

Donne dopo il cancro: l'importanza di tutelare il posto di lavoro



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Le storie, i numeri, le normative. Si parla di cancro e lavoro nel secondo approfondimento del ciclo: «Donne e tumore: com'è cambiata la tua vita?»

Donne dopo il cancro: l'importanza di tutelare il posto di lavoro

Può sembrare un falso problema. Ma in realtà è una priorità. Tutelare il posto di lavoro, per molte donne che s'ammalano di cancro, è una necessità: economica e psicologica. La legge - nello specifico la circolare 40 emessa dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel 2005 - tutela i pazienti oncologici: sebbene sussistano delle differenze tra lavoratori dipendenti (e ancora: tra dipendenti pubblici e privati) e autonomi. Ma lo scenario, purtroppo, non è sempre così rassicurante. Nei primi dieci anni del nuovo millennio, secondo un'indagine della Federazione italiana associazioni volontariato in oncologia (Favo) e del Censis, più di 240mila persone con una diagnosi di tumore hanno perso il lavoro.


L'assistenza psicologica che manca dopo la diagnosi di tumore al seno

 

PIU' DI 6 DONNE SU 10 SOPRAVVIVONO ALLA MALATTIA

La seconda puntata di «Donne e tumore: com'è cambiata la tua vita?», il contenitore dedicato alle donne ammalatesi di tumore al seno, all'utero o alle ovaie, è riservata al rapporto tra la malattia oncologica e il lavoro. Diversi i risvolti emersi, tutti di primo piano: dall'importanza per le donne di assentarsi il meno possibile dall'ufficio all'emergere di situazioni ai limiti della legge, quasi sempre penalizzanti per il «paziente-dipendente».

Anche in questo caso, così come emerso nella scorsa puntata dedicata alla preservazione della fertilità, si è di fronte a un'esigenza piuttosto recente, frutto dei progressi compiuti nella cura del cancro. Oggi il 63 per cento delle donne sconfigge il cancro e, dal momento che una diagnosi su tre viene registrata in una paziente giovane, dunque in piena attività lavorativa, la possibilità di conservare il proprio impiego risulta un bisogno sempre più sentito. «Perché pensare all'occupazione aiuta a guardare oltre la malattia - afferma Eleonora Capovilla, responsabile dell'unità operativa di psiconcologia dell'istituto Oncologico Veneto di Padova -. Ma la reazione non è sempre la medesima. C'è chi, dopo aver scoperto il cancro, ridefinisce le priorità e limita le attenzioni rivolte al lavoro, per concentrarsi più su se stesso e sui rapporti sociali». 

TUMORE AL SENO E PREVENZIONE:
QUALI ESAMI FARE?

IL TIPO DI LAVORO FA LA DIFFERENZA

Lo scenario è dunque più chiaro: da una parte ci sono le donne che s'aggrappano alla propria professionalità per trovare la forza di andare oltre un tumore e dall'altra chi dopo la malattia preferisce mettersi a riposo. «A grandi linee, la differenza è marcata dal grado di appagamento dato dal proprio lavoro - sostiene Claudia Borreani, responsabile della struttura di psicologia clinica dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Al primo gruppo appartengono le donne realizzate, coloro le quali occupano spesso ruoli di responsabilità. Sono loro a considerare l'impegno professionale un'occasione per distrarsi dalle terapie. Chi svolge mansioni faticose e spesso poco gratificanti difficilmente spinge per rientrare in ufficio il prima possibile. In questi casi non di rado capita di sentirsi chiedere quanto il lavoro possa aver contribuito all'insorgenza della malattia o se riprendere la routine possa condizionare il rischio di recidiva».


Con la medicina alternativa minori chance di sopravvivere al cancro

PAROLA ALLE DONNE

La maggior parte delle testimonianze raccolte nelle ultime settimane evidenziano - compatibilmente al decorso clinico della malattia - la necessità da parte delle donne di vedere sempre meno condizionata la loro vita dal cancro. «Frequentare tutti i giorni l'ufficio mi ha aiutato a non pensare sempre alla malattia, che inizialmente sembrava poter avere un risvolto peggiore di quello che poi è stato», dichiara Alessia, divenuta mamma di una bambina che oggi ha tre anni dopo un tumore della cervice uterina. «Il tumore mi ha reso più determinata nel cercare soluzioni per l'azienda. Il mio trascorso mi ha insegnato che la prima diagnosi non è, per forza, ineccepibile. Se mi fossi fermata subito, ora sarei senza utero e senza la mia bimba. Un discorso simile si può fare anche per le aziende: se si fermassero ai primi intralci e non cercassero soluzioni alternative, con la concorrenza farebbero fatica a sopravvivere».

Anche per Arianna il connubio tra malattia e impegni professionali è stato positivo, «perché mi ha dato la possibilità di svegliarmi, vestirmi e truccarmi ogni giorno. Il mio responsabile mi ha sempre sostenuto, ospitandomi nella sua casa di campagna subito dopo l'intervento, non privo di complicanze. Queste attenzioni non mi hanno fatto sentire da sola nel corso della battaglia». Ciò non vuol dire che i disagi non esistano. Ma che, con ogni probabilità, chi ha avuto una storia a lieto fine è pure più propenso a raccontarla.
 

I segni che il tumore lascia sui guariti


LE DIFFICOLTA' IN UFFICIO

A dimostrazione che non tutte le esperienze abbiano lasciato ricordi positivi, c'è la storia di Maria Luisa. «La mia storia è simile a quella di tante donne che dopo la malattia hanno perso il lavoro. Ero un'operatrice socio sanitaria, sono stata licenziata a luglio del 2014 e per quattordici mesi ho ricevuto il sussidio di disoccupazione. Ormai però sono ferma da tre anni e di trovare una nuova occupazione non se ne parla. Spero che ciò accada quanto prima, perché la depressione è sempre pronta a prendere il sopravvento». Anche Vitalba, pur volendo riprendere quanto prima la vita professionale, è stata costretta a tornare in ufficio sette giorni dopo l'intervento. «Stare tante ore seduta, col seno dolente, non è stato facile. Lavoro nello studio con mio zio, la sua disponibilità è stata massima. Ma in quel periodo eravamo a corto di personale e ho dovuto adeguarmi. Detto ciò, ho avuto conferma di quanto sia importante il lavoro in queste situazioni, perché ti dà modo di pensare meno alla malattia. E di vivere meglio, di conseguenza». Non sono sempre tutte rose e fiori, però. «Quando si torna in ufficio dopo un periodo di malattia legato al cancro, non sempre si ritrova il proprio posto - aggiunge Capovilla -. Ci sono datori di lavoro che sottovalutano i limiti fisici che possono accompagnare un tumore e altri che invece tendono a marginalizzare una persona che invece sarebbe in grado di recuperare le proprie funzioni». Impressioni che, nella pratica quotidiana, fanno parte anche del bagaglio d'esperienza di Borreani: «Ci sono donne che, dopo aver avuto un cancro, hanno visto porsi un limite alla carriera». E non sempre in maniera giustificata dalla gravità della malattia. 


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CON IL CANCRO SI PERDE IL LAVORO? 

Cosa dice la legge relativamente alle tutele di cui gode un malato oncologico sul posto di lavoro? «Chi si ammala prima di aver trovato un'occupazione, deve sapere che, in caso di invalidità compresa tra il 46 e il 100 per cento, può accedere a quei posti che tutte le imprese private e gli enti pubblici devono a loro riservare - afferma Elisabetta Iannelli, avvocato e vicepresidente dell'Associazione Italiana Malati di Cancro (Aimac), che all'argomento tumore e lavoro ha dedicato anche un'apposita pubblicazione -. Mentre il lavoratore, pubblico o privato, che scopre di avere un cancro, ha diritto al trasferimento nella sede più vicina al proprio domicilio. E lo stesso discorso vale per il familiare che lo assiste. Se l'invalidità è incompatibile con le mansioni che ricoperte fino al momento della diagnosi, così come con il lavoro notturno, il dipendente può chiedere una modifica delle mansioni per renderle più adeguate alle mutate condizioni di salute e capacità di lavoro, senza ripercussioni sul suo stipendio. Quanto al telelavoro, invece, è facoltà del paziente chiedere di usufruirne, previo ok da parte del suo responsabile. E l'accordo, una volta raggiunto, va messo nero su bianco».

LAVORO AUTONOMO

Fin qui i diritti per i dipendenti, che possono essere licenziati al termine del periodo di comporto: durante il quale nessun datore di lavoro può liberarsi di un proprio dipendente. Più complessa è la situazione per i liberi professionisti ed i lavoratori autonomi, per i quali le tutele sono legate a quanto concesso rispettivamente dalle singole casse previdenziali o dalla gestione separata Inps cui sono iscritti. Su questo punto, la battaglia che conduce la blogger «Afrodite K» è strenua: «Chiediamo che venga garantita un'indennità di malattia per chi ha un minimo contributivo di tre annualità e non solo negli ultimi dodici mesi, perché questo penalizza chi nell'ultimo anno, prima di ammalarsi, ha avuto la sfortuna di lavorare di meno». C'è però una buona notizia, in questo senso. Il nuovo Statuto dei lavoratori autonomi, in caso di malattia, prevede il congelamento dei contributi previdenziali per un massimo di due anni. Mentre l'indennità di malattia risulta equiparata alla degenza ospedaliera: così i giorni utilizzabili passano da 61 a 180, facendo raddoppiare il rimborso economico.

 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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