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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 11-08-2017

Tumore della prostata: nuove conferme per la sorveglianza attiva



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In alcuni casi ci si può limitare a sorvegliare il tumore della prostata, senza inficiare la sopravvivenza a lungo termine. In Italia almeno 10.000 pazienti l'anno scelgono così

Tumore della prostata: nuove conferme per la sorveglianza attiva

La sorveglianza attiva per la gestione del tumore della prostata non è una novità. Ogni anno, in Italia, almeno diecimila pazienti a cui viene diagnosticato la più diffusa neoplasia maschile non vengono operati, ma tenuti sotto controllo attraverso un protocollo specifico che prevede quattro volte all'anno il dosaggio dell'antigene prostatico specifico (Psa), due controlli clinici (semestrali) e una biopsia dell'organo (annuale). Eppure non è sempre facile far capire ai pazienti come, in questo caso, le conseguenze negative della chirurgia possano essere in realtà superiori ai suoi benefici. Ecco perché ogni ulteriore conferma a riguardo è ben accetta.

TUMORE DELLA PROSTATA: QUANDO SI PUO' EVITARE L'INTERVENTO?

NUOVE PROVE A SOSTEGNO DELLA SORVEGLIANZA ATTIVA

L'ultimo dato a favore arriva da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine, in cui i ricercatori statunitensi hanno diffuso i risultati del confronto tra due gruppi di pazienti a cui tra il 1994 e il 2002 era stato diagnosticato un tumore della prostata. Per valutare l'efficacia della sorveglianza attiva, gli specialisti hanno diviso il campione di 731 pazienti in due gruppi: in uno sono entrati a far parte i pazienti operati per rimuovere la neoplasia, nell'altro coloro i quali hanno monitorato il decorso della malattia con esami periodici, senza finire subito in sala operatoria. Al termine di un follow-up durato in alcuni casi vent'anni, i dati osservati hanno permesso di affermare che, nei tumori della prostata localizzati, la chirurgia non fornisce alcun beneficio rispetto alla sorveglianza attiva in termini di sopravvivenza a lungo termine. Le differenze in termini di mortalità sia per tumore alla prostata che per altre cause sono risultate poco significative. 


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CON GLI INTERVENTI AUMENTA L'INCIDENZA DI COMPLICANZE

Come si spiega l'assenza di benefici ascrivili alla chirurgia, nei casi in cui la neoplasia viene diagnosticata in fase iniziale? Il motivo è la lenta progressione della malattia che, considerando anche l'età spesso avanzata in cui ci si ammala di tumore della prostata, permette di gestirla serrando i tempi dei controlli per poi eventualmente operare il paziente soltanto in caso di una sua rapida espansione (rilevabile anche attraverso sintomi come la difficoltà a urinare e la comparsa di dolori ossei). A sconsigliare l'intervento, in questi casi, è anche l'aumentata incidenza di complicanze che si rilevano nei pazienti operati: infezioni, incontinenza urinaria, disfunzione erettile. Secondo Gerale Andriole, direttore della divisione di urologia alla Washington University e co-autore della ricerca, «i risultati dello studio saranno utili per migliorare la cura del cancro della prostata». Le conclusioni dello studio riguardano infatti «il 70 per cento dei pazienti, a tanto ammonta la quota di diagnosi che avvengono in una fase precoce della malattia. Questi pazienti presentano tassi di guarigione superiori al 90 per cento pur senza ricorrere all'intervento chirurgico». 

L'asportazione chirurgica della prostata, imprescindibile per determinare una riduzione della mortalità nei casi in cui la neoplasia viene diagnosticata a uno stadio intermedio, può dunque essere evitata nella maggior parte dei casi. La scelta va comunque spiegata a fondo ai pazienti, che per scacciare la paura sono portati anche in maniera inconscia a prediligere l'opzione più aggressiva. Per valutare nel tempo il decorso del tumore, in modo da procedere eventualmente in maniera differita all'asportazione della ghiandola, il monitoraggio dei valori di PSA, l'antigene prostatico specifico, rappresenta una strategia efficace (abbinato alla visita urologica e alla ripetizione periodica di biopsie prostatiche). Come spiega Riccardo Valdagni, direttore dell'unità di radioterapia oncologica 1 e del programma prostata dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, oltre che presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (Siuro), «se da un lato questo test concorre a individuare molti tumori indolenti che non devono essere trattati ma solo sorvegliati, dall'altro ci permette di individuare anticipatamente una percentuale significativa di tumori potenzialmente letali e di monitorare il decorso della malattia». 

 
Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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