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Cardiologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 12-12-2019

Lea: ancora troppe disuguaglianze tra le regioni italiane



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Secondo la Fondazione Gimbe, il monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza fotografa una situazione di «inaccettabile» divario tra le Regioni

Lea: ancora troppe disuguaglianze tra le regioni italiane

C'è un'«elite», che in Italia costituisce un'eccezione pur dovendo sulla carta rappresentare la regola. Dopodiché, la classifica che valuta la qualità dell'assistenza sanitaria di base fornita dalle Regioni italiane è suddivisa in tre tronconi: separati da altrettante nette fratture. Tanto in termini di prevenzione quanto di cura, chi abita nelle aree del Centro e del Nord della Penisola può contare più spesso su quelle tutele che il servizio sanitario nazionale dovrebbe garantire ovunque. Cosa che invece non accade, se i 14 milioni di italiani che risiedono dall'Abruzzo alla Sicilia vengono trattati come cittadini di seconda fascia. E, in molti casi, devono rinunciare a servizi e prestazioni di base. Inevitabile che, a fronte di un simile scenario, la mobilità sanitaria lungo la Penisola non accenni ad arrestarsi. 


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CHE COSA SONO I LEA E A COSA SERVONO?

Il monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) fotografa un Paese che marcia (almeno) a tre velocità. Le prestazioni e i servizi che rientrano sotto questo cappello sono quelli che il Servizio Sanitario Nazionale deve (dovrebbe) fornire a tutti i cittadini: gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). Questa offerta - garantita attraverso il gettito fiscale - è considerata il caposaldo dell'assistenza sanitaria italiana. E la valutazione - in seguito all'introduzione del federalismo in sanità - è stata finora considerata un indicatore dell'efficienza dei singoli servizi sanitari regionali.  


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I LEA AI «RAGGI X»

Da qui il lavoro compiuto dalla Fondazione Gimbe, che ha monitorato l'andamento delle prestazioni inserite nei Lea ed erogate tra il 2010 e il 2017. L'istantanea riproduce una forbice «inaccettabile» tra le Regioni. Servizi e prestazioni previsti sono stati forniti, in media, nel 73.7 per cento dei casi per cui vi era un'indicazione. Ma il divario tra le aree del Paese è enorme, se si passa dal 53.9 per cento della Campania al 92.2 per cento dell'Emilia Romagna: che assieme alla Toscana, al Piemonte, al Veneto e alla Lombardia fa parte dell'elenco delle Regioni che trattano meglio i loro abitanti. Nella seconda fascia rientrano i territori che hanno comunque raggiunto la soglia necessaria per essere «promosse» dal Ministero della Salute: Umbria (83.9 per cento), Marche (81.9), Liguria (80.3), Friuli Venezia Giulia (79), Provincia Autonoma di Trento (77.8) e Basilicata (75.3). Tutte Regioni del Nord, a eccezione di quest'ultima. Un dato che conferma l'esistenza di una «questione meridionale in sanità», secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. Affermazione supportata dai successivi due elenchi, di cui fanno parte le Regioni inadempienti: Abruzzo (72.8 per cento), Lazio (72), Sicilia (67.9), Molise (66.7), Puglia (63.1), Valle d'Aosta (62), Calabria (58.9), Sardegna (56.1), Provincia Autonoma di Bolzano (55.4) e Campania (53.9). 


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COME LEGGERE QUESTI DATI?

Il confronto svela un incremento dell'offerta sanitaria minima sul territorio nazionale, tra il 2010 (64.1 per cento) e il 2017 (81.3 per cento). Ma il miglioramento, secondo Cartabellotta, «è sovrastimato, a causa delle modeste capacità che lo strumento ha di catturare gli inadempimenti»: con indicatori limitati, una rilevazione affidata alle autocertificazioni regionali e con soglie invariate dal 2015. Per tutte queste ragioni, «la griglia dei Lea non è più uno strumento adeguato per verificare la reale erogazione delle prestazioni sanitarie e la loro effettiva esigibilità da parte dei cittadini». Detto ciò, considerando l'assenza di strumenti più efficaci, l'analisi dice anche che «il 26.3 per cento delle risorse assegnate dallo Stato alle Regioni tra il 2010 e il 2017 non ha prodotto servizi per i cittadini». Di fatto, un quarto dei soldi che avrebbero dovuto essere spesi per aiutare cittadini in difficoltà sono andati in fumo senza lasciare tracce. 

 

MOBILITA' SANITARIA E PROSPETTIVE DI VITA

Ci sono almeno due conseguenze che scaturiscono da un'erogazione ridotta dei Livelli Essenziali di Assistenza: l'aumento della mobilità sanitaria e l'impatto sulle prospettive di vita. Per far fronte alle inadempienze delle proprie Regioni, nel 2017 quasi un milione di italiani si sono allontanati da casa per sottoporsi a esami diagnostici, interventi chirurgici o altre terapie. I cittadini sono partiti dal Mezzogiorno (mobilità passiva) per curarsi tendenzialmente dalla Romagna in su (mobilità attiva). Scegliendo di farlo o, peggio ancora, trovandosi obbligati, in assenza di soluzioni affidabili e tempestive a pochi chilometri dalla propria residenza. Ancora più rilevante è l'impatto che le disuguaglianze nell'offerta sanitaria generano in termini di prospettive di vita. Come dimostrano le statistiche dell'Istat, un cittadino calabrese corre il rischio di vivere mediamente 18 anni in meno in buona salute rispetto a un coetaneo altoatesino. Per spostarsi, d'altra parte, c'è bisogno di danaro. E chi non ne ha a sufficienza, finisce per evitare di curarsi: sorte che in ogni anno riguardarebbe all'incirca 4 milioni di italiani. Cittadini di seconda e di terza serie, a tutti gli effetti.

 

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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