Chiudi
I nostri ricercatori
Alessandro Vitale
pubblicato il 08-01-2019

Il ruolo del lattato nelle metastasi ossee da tumore al seno



Aggiungi ai preferiti

Registrati/accedi per aggiungere ai preferiti

Le metastasi ossee sono tra le più comuni negli stadi avanzati di carcinoma mammario. Silvia Lemma studia il ruolo del lattato come marcatore per la diagnosi precoce e bersaglio per futuri farmaci

Il ruolo del lattato nelle metastasi ossee da tumore al seno

Nell’ambito di un tumore al seno, la fase avanzata si differenzia da quella precoce sotto molti aspetti. Un punto di importanza cruciale è la possibile formazione di metastasi, dovute al distacco di cellule cancerose dalla sede originaria della malattia e alla loro migrazione verso uno o più organi, dove danno vita a nuovi tumori. Le metastasi colpiscono generalmente ossa, cervello, polmoni e fegato e sono spesso associate a una prognosi infausta, possono variare in numero, conservare le caratteristiche del tumore primitivo o svilupparne di nuove. Se le metastasi sono poche e confinate in un’area ristretta è talvolta possibile ricorrere a trattamenti locali come la chirurgia, che può essere utilizzata per rimuovere metastasi da fegato, polmoni o cervello, o la radioterapia, che può essere un’opzione nei casi di metastasi ossee.

Purtroppo, in molti casi, le cure farmacologiche per il carcinoma mammario che evolve in metastasi ossee sono prettamente palliative. Per ampliare le possibilità d’intervento, è importante comprendere i processi molecolari e metabolici che si instaurano tra le cellule tumorali e quelle del microambiente osseo. Questa la linea di ricerca di Silvia Lemma, finanziata nell’ambito del progetto Pink is Good di Fondazione Umberto Veronesi a sostegno dei tumori al seno.

 

Silvia, raccontaci qualcosa di più sulla tua ricerca.

«Le metastasi ossee derivanti dai carcinomi del seno sono prevalentemente di tipo “osteolitico”: si tratta cioè di metastasi nelle quali le cellule tumorali producono molecole che causano un’attivazione eccessiva degli osteoclasti, le cellule responsabili per il normale processo di erosione dell’osso. L’ipotesi è che una di queste molecole sia il lattato, e che questo venga sintetizzato non solo dalle cellule metastatiche ma anche da cellule del sistema immunitario, attratte da segnali inviati dal tumore per scatenare un’infiammazione. Il mio progetto punta a verificare questo meccanismo, e a scoprire se modulare il metabolismo del lattato mediante trattamento farmacologico possa ridurre la formazione di lesioni ossee. I risultati sono stati validati attraverso uno studio clinico osservazionale su pazienti con metastasi ossee da carcinoma mammario, nel quale ho osservato come i livelli di alcuni biomarcatori presenti nel sangue notoriamente legati alle metastasi correlino in effetti con alti livelli di lattato».

 

Quali sono le possibili applicazioni per la cura dei pazienti?

«L’identificazione di biomarcatori nel sangue dei pazienti aiuterà la diagnosi precoce delle metastasi osteolitiche da tumore al seno, mentre l’approccio farmacologico pone le basi per lo sviluppo di un trattamento specifico per le metastasi ossee».

 

Silvia, descrivici la tua giornata tipo in laboratorio.

«Il lavoro del ricercatore è caratterizzato da organizzazione, timing serrato e divisione dei giorni in progetti: comincio entro le 9, controllo la posta elettronica e poi inizio a lavorare al computer e in laboratorio. L’attività di confronto è uno degli aspetti più importanti del mio lavoro: condividere i propri dubbi consente di vedere i risultati con occhi diversi creando una critica costruttiva che consente di crescere e migliorare ogni giorno. Una parte delle mie giornate è dedicata anche al mentoring di ragazzi più giovani, come studenti universitari e dottorandi».

 

Sei mai stata all’estero per una esperienza lavorativa?

«Ho svolto periodi di ricerca all’estero sia durante il dottorato di ricerca che dopo il dottorato. Dal punto di vista professionale ho imparato nuovi approcci e metodologie scientifiche, ma soprattutto ho imparato a essere autonoma e indipendente: quando si è soli è necessario affinare le proprie capacità per portare avanti il progetto e trovare autonomamente le soluzioni ai problemi scientifici. Quando sei lontano da casa, poi, il lato umano acquisisce un’importanza fondamentale, e io ho avuto la fortuna di conoscere nuovi amici e colleghi: con molti di loro sono ancora in contatto».

 

Cosa ti ha spinto sulla strada della ricerca?

«Ho scelto di fare ricerca perché per me è il lavoro più bello del mondo. È un lavoro che consente di conciliare il piacere di studiare con la verifica sperimentale delle proprie idee, spronandoti ad un miglioramento continuo. Terminato il liceo, ho deciso di iscrivermi alla facoltà di biotecnologie. La consapevolezza di aver fatto la scelta giusta è arrivata nel momento in cui sono entrata nei laboratori di ricerca: allora ho capito quanto affascinante sia la scienza e questo lavoro, nonostante la sua precarietà. Avere la possibilità di continuare ancora oggi a fare il lavoro che amo è per me fonte di gioia e soddisfazione personale».

 

Un momento della tua vita professionale da incorniciare e uno da dimenticare.

«Uno dei momenti più belli è stato quando ho vinto la borsa di studio finanziata dalla Fondazione Umberto Veronesi. È stato davvero emozionante. Momenti difficili ce ne sono stati tanti, ma nessuno da dimenticare».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il momento esatto in cui, quando arrivo a una soluzione o al termine di un esperimento, “scopro” qualcosa. So di essere l’unica persona al mondo a saperlo in quell’istante, e non vedo l’ora di condividerlo. È un piacere indescrivibile che ripaga dei tanti sacrifici fatti fino a quel momento. E poi è il lavoro più appassionante che esista. Consente di aiutare concretamente le persone che soffrono e di contribuire al progresso della società. Dona speranza. Intimamente spero che un giorno le nostre ricerche possano cambiare in meglio la vita delle persone». 
 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Il precariato».


Silvia fuori dal laboratorio: hai qualche passione o hobby?

«Il (poco) tempo libero lo dedico al disegno e alla grafica digitale. L’anno scorso ho frequentato un corso di grafica per apprendere seriamente le tecniche che avevo imparato da autodidatta. Inoltre amo profondamente viaggiare, ma questo prende un po’ più tempo...».


Hai famiglia?

«Ho un ragazzo con il quale convivo e un cagnolino».


Se un giorno tuo figlio o figlia ti dicesse di voler fare il ricercatore, come reagiresti?

«Ne sarei orgogliosa, ma da madre e ricercatrice sarei preoccupata per il precariato che caratterizza questo lavoro. Spero che in futuro la situazione cambi in meglio».



Articoli correlati


In evidenza

Torna a inizio pagina