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Alessandro Vitale
pubblicato il 24-02-2020

Neuroblastoma: quali speranze dall'immunoterapia?



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L’immunoterapia ha mostrato un grande potenziale nella cura di alcuni tumori solidi. Migliorare la tecnica per colpire anche le neoplasie infantili è l’obiettivo di Francesca Romana Mariotti

Neuroblastoma: quali speranze dall'immunoterapia?

L’immunoterapia è un insieme di tecniche che ha come obiettivo quello di «risvegliare» il nostro sistema immunitario per riconoscere e attaccare le cellule cancerose. Questo approccio ha ampliato le opzioni terapeutiche a disposizione, contribuendo allo sviluppo della cosiddetta oncologia di precisione e migliorando la prognosi di diversi tumori: come nel caso del melanoma metastatico e del carcinoma al polmone.

 

I successi dell’immunoterapia inducono a sperimentare questo approccio anche per diversi tipi di tumore, come quelli ematologici o legati all’età infantile e pediatrica. Francesca Romana Mariotti, biologa e ricercatrice dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, lavorerà proprio su questi temi cercando di mettere a punto una specifica tecnica di immunoterapia contro il neuroblastoma: il suo lavoro è sostenuto da Fondazione Umberto Veronesi grazie al progetto Gold for Kids.

 

Francesca, raccontaci qualcosa di più sul tuo progetto e sul tumore del quale ti occupi, il neuroblastoma.

«Il neuroblastoma è un tumore pediatrico molto eterogeneo sia dal punto di vista clinico che biologico. La prognosi dei pazienti denominati ad alto rischio, che presentano una neoplasia aggressiva e recidivante, rimane tuttavia ancora sfavorevole. Il mio lavoro si concentra sulle cellule natural killer (NK), una popolazione del sistema immunitario in grado di riconoscere le cellule tumorali e promuovere la loro».

 

Se queste cellule sono in grado di colpire il tumore, cosa manca per usarle in terapia?

«Spesso le cellule del tumore sono in grado di spegnere la risposta del sistema immunitario e questo è un problema anche per l’immunoterapia. In particolare, il mio progetto si occupa di PD-1, un recettore inibitorio in grado di bloccare l’attività anti-tumorale delle cellule immunitarie. La nostra ipotesi è che possa giocare un ruolo chiave nella progressione del neuroblastoma».

 

Come vorresti verificarlo?

«I fattori che regolano l’attività di PD-1 sulle cellule NK, quando provano a contrastare il neuroblastoma, non sono ancora noti. L’obiettivo del progetto sarà quello di studiare la catena di reazione molecolari in cui è coinvolto PD-1, per capire come questo recettore possa modulare l’interazione tra NK e il tumore. Nello specifico, siamo interessati a identificare i fattori che portano ad aumentare la presenza di PD-1 sulle NK, determinando così un blocco della loro attività. Grazie a queste informazioni sarà possibile sviluppare nuove tecniche in grado di aumentare la risposta immunitaria antitumorale. E migliorare, così, la prognosi dei pazienti affetti da neuroblastoma».

 

Francesca, sei mai stata all’estero per lavoro e ricerca?

«Sono stata in Scozia per il dottorato. Durante la tesi avevo capito che mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza all’estero e così ho fatto domanda per una borsa di studio presso l’Università di Edimburgo».

 

Cosa ti ha lasciato quel periodo?

«Sicuramente mi ha fatto crescere molto, sia dal punto di vista scientifico sia personale. Mi sono trovata in un ambiente molto stimolante ma anche estremamente esigente che mi ha spronata a dare tanto. E mi ha fatto capire che la collaborazione è fondamentale per sviluppare al meglio la ricerca».

 

Ti è mai mancata casa?

«Certo, l’Italia, la famiglia e gli amici mi sono mancati tantissimo. Ma contemporaneamente ho conosciuto tante persone e mi sono confrontata con culture diverse e questa esperienza mi ha arricchito molto dal punto di vista personale».

 

Ricordi il momento in cui hai capito di voler diventare una ricercatrice?

«Fin dal liceo le ore di scienze mi hanno sempre appassionata ed ero sicura di scegliere la facoltà di biologia. Poi è stato grazie anche al professore Giorgio Camilloni, e alle sue lezioni di biologia molecolare, che mi sono appassionata sempre di più alla ricerca».

 

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno da dimenticare.

«La felicità che ho provato dopo aver sostenuto e superato l’esame di dottorato all’estero. Ci sono stati diversi momenti difficili duranti questi anni ma nessuno da dimenticare, perché mi hanno comunque permesso di imparare qualcosa, soprattutto su me stessa».

 

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Spero sempre nel mondo della ricerca».

 

Cosa ti piace di più tuo lavoro?

«Il fatto che è una attività piena di stimoli e sempre diversa».

 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La precarietà, quella sensazione costante di mancanza di certezze perché non sai mai se il tuo contratto verrà rinnovato l’anno successivo».

 

Hai una figura di riferimento nella vita?

«I miei genitori sono stati sicuramente un esempio importante. Mi hanno trasmesso la loro passione per il lavoro, insegnato a non arrendermi di fronte alle difficoltà e soprattutto hanno sempre avuto fiducia in me e nelle mie scelte».

 

Chi è Francesca nel tempo libero?

«Mi piace molto cucinare, andare al cinema e fare arrampicata».

 

Hai famiglia?

«Sì, sono sposata da quattro anni ed ho un figlio di un anno».

 

Se un giorno tuo figlio ti dicesse di voler fare il ricercatore, come reagiresti?

«Se è veramente quello che vuole non ostacolerei la sua scelta, ma gli racconterei bene la mia esperienza per fargli comprendere quali potranno essere le difficoltà e i sacrifici di questo lavoro».

 

Un viaggio che vorresti assolutamente fare.

«Ci sono molti luoghi che vorrei visitare, e nei primi posti della lista ci sono il Giappone e l’Africa».

 

Sei felice della tua vita?

«Sì, moltissimo».

 

Un ricordo a te caro di quando eri bambina.

«Le vacanze estive in Sicilia e le feste di Natale passate insieme ai miei nonni, zii e cugini».

 

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Li vorrei solo ringraziare per avere fiducia in quello che facciamo e per permetterci di poter portare avanti le nostre ricerche».



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