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I nostri ricercatori
Alessandro Vitale
pubblicato il 25-02-2019

Nuove informazioni per la diagnosi nel linfoma di Hodgkin pediatrico



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Dorina Qehajaj vuole rendere più affidabili le previsioni sulla risposta alle terapie nei pazienti con linfoma di Hodgkin pediatrico, così da modulare al meglio le cure

Nuove informazioni per la diagnosi nel linfoma di Hodgkin pediatrico

Il linfoma è un tumore maligno del sistema linfatico, l’apparato costituito da cellule e tessuti che si occupano della difesa dell’organismo. Un modo per immaginarlo consiste nel pensare a una rete - i vasi linfatici - con cellule immunitarie circolanti (prevalentemente linfociti) e delle «stazioni» (i linfonodi) che si manifestano ingrossate quando nel corpo è in corso un’infezione. Vista la distribuzione dei linfonodi lungo tutto il corpo, la malattia può manifestarsi a qualsiasi livello dell’organismo.  

Il linfoma di Hodgkin, in particolare, colpisce soprattutto la fascia di età tra venti e i trent’anni, e oltre la settima decade di vita. I casi infantili sono rari e le conoscenze acquisite negli ultimi anni hanno portato a una prognosi favorevole, ma un sottogruppo di pazienti ancora non risponde alle terapie o presenta una recidiva di malattia. Dorina Qehajaj, biologa e ricercatrice presso l’Istituto Clinico Humanitas di Milano, studia come rendere più affidabili le previsioni sulla risposta alla terapia nei pazienti con linfoma di Hodgkin pediatrico, grazie al sostegno del progetto Gold for Kids.

 

Buongiorno Dorina, raccontaci qualcosa di più sulla tua ricerca.

«Il mio lavoro riguarda principalmente il linfoma di Hodgkin, un tipo di neoplasia che grazie alle odierne conoscenze scientifiche presenta ottime probabilità di sopravvivenza. Purtroppo esistono casi di pazienti che rispondono solo parzialmente alle terapie, o che non rispondono affatto. Per questo motivo alcuni studi cercano di aumentare la sopravvivenza complessiva anche per questi giovani pazienti. Il mio lavoro, in particolare, punta a valutare in anticipo quanto un paziente possa rispondere alla chemioterapia: il metodo più promettente per ottenere questa informazione è la tecnica d'immagine PET-FDG».

 

Di cosa si tratta? 

«È una tecnica che combina la PET (una tecnica di diagnostica per immagini, che consente di individuare i tumori e valutarne posizione e dimensione, ndr) con un “radiofarmaco", il fluoro-desossiglucosio (FDG), e che permette di valutare in anticipo quanto il tumore sarà aggressivo e quanto efficaci saranno i farmaci chemioterapici. L’obiettivo del mio progetto sarà migliorare la precisione di questa analisi, includendo due nuovi parametri come il volume e la struttura tridimensionale del tumore».

 

E quali potranno essere i vantaggi per i pazienti più giovani colpiti da linfoma di Hodgkin?

«Queste informazioni verranno incrociate con altri i dati dei pazienti (come la velocità di sviluppo del tumore o la sopravvivenza, ndr) per migliorare ulteriormente la precisione della tecnica PET-FDG e avere analisi ancora più affidabili: si potranno individuare in anticipo i pazienti che rispondono al trattamento farmacologico rispetto a quelli non rispondenti, cioè stabilire precocemente l’efficacia terapeutica nel linfoma di Hodgkin pediatrico».

 

Sembra un lavoro lungo e di precisione: raccontaci la tua giornata tipo in laboratorio.

«È difficile riassumere in poche parole una giornata lavorativa. La mia attività inizia generalmente alle 8.30 e non è previsto un termine preciso: l’attività sperimentale, la curiosità per i risultati ottenuti e la pianificazione delle giornate successive impediscono talvolta di guardare l’orologio».

 

C’è un momento in cui hai sentito scoccare la scintilla per la ricerca?

«Inizialmente avevo scelto un ambito più diagnostico, ma l’ambizione di studiare i meccanismi complessi alla base delle patologie umane mi hanno spinto a cambiare iniziando l’attività sperimentale presso un laboratorio. È stata anche una scelta “personale”, perché nella ricerca si cerca di migliorare la qualità di vita di tutta la popolazione, anche se i risultati non sono immediati e richiedono impegno, volontà, e soprattutto dedizione e fiducia».

 

Hai un aspetto del lavoro che ti sta particolarmente a cuore?

«Tutto, ma in particolare il momento dell’interpretazione di un esperimento. La continua creatività, studio, acquisizione di nuove conoscenze e scambi delle conoscenze con i colleghi sono motivi di gratificazione personale e per andare avanti».

 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Nell’ambito della ricerca la competizione è molto alta. Questa, talvolta, porta a rivalità inutili e non costruttive. Ritengo la continua collaborazione e la capacità di discutere accettando opinioni diverse un patrimonio importante per la crescita professionale e personale di ciascuno di noi».

 

Ci sono state delle figure che ti hanno ispirato, in questo tuo percorso di crescita?

«Molte: il supporto che ho ricevuto dalla mia famiglia e dalle persone che ho conosciuto nel corso degli studi, mi hanno stimolato a proseguire la strada intrapresa nel corso degli anni».

 

Guardiamo allora a chi non lavora con te tutti i giorni: nella tua esperienza, percepisci un sentimento antiscientifico in Italia?

«No! È tuttavia indubbio che i sistemi di comunicazione attuale, pur avendo aiutato il ricercatore, allo stesso tempo hanno modificato il rapporto medico-paziente e ricercatore-paziente. Le informazioni non corrette diventano un problema enorme da gestire».

 

Dorina, al di fuori della ricerca: quali sono i tuoi interessi?

«Nel tempo libero mi piace fare passeggiate avendo contatto con la natura. Un giorno mi piacerebbe vedere l’Antartide per la natura che riserva e l’emozione che potrebbe trasmettermi».

 

Esiste qualcosa di cui hai paura?

«Terminare il mio lavoro e accorgermi che, dopo tanti sforzi fatti, i problemi di cui mi sono occupata possano essere rimasti irrisolti come quando ho iniziato la mia attività scientifica».



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