Secondo un recente rapporto di Alzheimer’s Disease International, gli interventi non farmacologici – come esercizio fisico mirato, test cognitivi, riorganizzazione degli spazi e incontri di gruppo – dovrebbero essere considerati parte integrante dei percorsi terapeutici, al pari dei farmaci. Un’indicazione ripresa anche in Italia dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), che nelle sue linee guida ne conferma l’efficacia e definisce per quali pazienti e in quali condizioni risultano più utili.
Ma quali sono questi tipo di intervento? «Ne possiamo distinguere di tre tipi: la riabilitazione, il training e la stimolazione cognitiva», spiega Antonio Guaita, geriatra, direttore della Fondazione Golgi Cenci e membro del comitato tecnico-scientifico che ha redatto le linee guida dell’ISS.
PIÙ AUTONOMIA NELLE AZIONI QUOTIDIANE
La riabilitazione aiuta il paziente a recuperare, almeno in parte, la propria autonomia nella vita di ogni giorno, con l’aiuto di un terapista occupazionale.
«L’obiettivo è ricostruire la consequenzialità delle azioni – lavarsi, vestirsi, mangiare – e creare una routine stabile. I vestiti, per esempio, possono essere disposti nell’armadio in modo da facilitare la scelta e l’ordine corretto. Se il paziente ha difficoltà ad abbottonarsi, si possono sostituire i bottoni con clip. A tavola è utile presentare le pietanze una alla volta e in modo che catturino l’attenzione, magari grazie al contrasto dei colori».
La riabilitazione si concentra quindi sulla sequenza delle attività e sull’ambiente circostante, adattandolo alle esigenze della persona. «Si sfrutta la memoria procedurale – quella che ci permette di ricordare come si va in bicicletta – che tende a essere preservata più a lungo nei pazienti».
I risultati sono positivi ma, sottolinea Guaita, non miracolosi: «È importante che le famiglie sappiano che queste tecniche possono ritardare la perdita di autonomia anche di alcuni mesi, ma non impedirla del tutto».
RICORDARE E ORIENTARSI NELLO SPAZIO
Gli interventi di training cognitivo servono ad allenare la memoria e vengono condotti da uno psicologo.
«Un esercizio tipico consiste nel chiedere al paziente di ripetere cinque parole in ordine, poi in senso inverso, poi di memorizzare una nuova sequenza, o di ricordare la terza parola della prima serie. Oppure si può lavorare sull’orientamento nello spazio, usando una cartina o la realtà virtuale. È un allenamento specifico e intensivo, spesso quotidiano, svolto in centri diurni. Esistono anche strumenti online, utilizzabili da casa con l’aiuto del caregiver».
STIMOLARE LA MENTE CON ESEMPI PRATICI
La stimolazione cognitiva sembra, sulla base degli studi, l’approccio più efficace, e di solito si svolge in gruppo.
«Si propongono incontri in cui i partecipanti raccontano di sé, riconoscono oggetti o immagini, o eseguono esercizi per allenare le funzioni esecutive, come la capacità di pianificare un’azione. Per esempio: se hai a disposizione uova, burro, sale e pepe, cosa cucini? E come procedi, passo dopo passo, per prepararlo?».
Altri esercizi servono a rinforzare le conoscenze temporali e spaziali – sapere che giorno è, in quale stagione o città ci si trova.
«Si esercitano diversi aspetti della cognizione, e le attività possono essere svolte in una stanza attrezzata, in ambulatorio o in un centro diurno, con il supporto di uno psicologo e di un terapista occupazionale».
UN PERCORSO SU MISURA
Ogni intervento deve essere personalizzato: le attività vanno adattate agli obiettivi e alle capacità del paziente, evitando che siano troppo facili o troppo difficili, per non risultare inutili o frustranti.
«A differenza delle persone sane, chi è affetto da Alzheimer o da un’altra forma di demenza non apprende nuove nozioni; l’attività deve quindi rinforzare le conoscenze già acquisite», precisa l’esperto.
Secondo le linee guida dell’ISS, la riabilitazione e la stimolazione cognitiva sono più efficaci nelle fasi da lieve a moderata, mentre il training cognitivo è indicato nei casi di demenza molto lieve.
Accanto a questi interventi, anche attività come l’esercizio fisico, il canto, la musica possono apportare beneficio. «Sono tutte esperienze che aiutano a ridurre i disturbi del comportamento, ma non vanno pensate solo come “terapie”: sono parte della vita. Poiché il confine tra trattamento e quotidianità è sottile, tutto ciò che può far stare bene la persona dovrebbe essere incoraggiato, anche al di fuori dei contesti sanitari».
IL PIANO NAZIONALE PER LE DEMENZE: VERSO UN AGGIORNAMENTO
In Italia, come nel resto del mondo, questi interventi non farmacologici sono ancora poco sfruttati.
L’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità sta raccogliendo dati per capire quali centri li propongono e con quali modalità, ma la situazione è ancora molto eterogenea.
«L’obiettivo – spiega Guaita – è che questi interventi siano riconosciuti come attività prescrivibili e garantite dal Servizio sanitario. Al momento, però, tutto dipende dal PDTA (Piano Diagnostico Terapeutico Assistenziale) di ciascuna Regione».
L’Alzheimer’s Disease International, nel suo rapporto, sottolinea la necessità di integrare la riabilitazione nei piani nazionali per la demenza come diritto, in linea con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
In Italia il Piano Nazionale per le Demenze (PND) – che definisce linee guida e obiettivi comuni per migliorare la presa in carico delle persone con demenza e delle loro famiglie – è attualmente in fase di aggiornamento.
«Il tema della riabilitazione sarà affrontato con attenzione nell’ambito dell’aggiornamento del Piano Nazionale Demenze, a cui sta lavorando anche la Federazione Alzheimer Italia insieme agli altri componenti del Tavolo Demenze», spiega Mario Possenti, segretario generale della Federazione Alzheimer Italia.
«Naturalmente, la reale applicazione di questi interventi dipenderà dalla capacità di garantire finanziamenti adeguati e strutturali: senza risorse, il rischio è che le misure restino solo sulla carta».

