Un cervello attivo è un cervello che sarà in grado di proteggersi meglio dai danni procurati dall’Alzheimer. Su questo sono tutti d’accordo, grazie a diversi studi che suggeriscono una correlazione tra una maggiore istruzione da giovani e un ridotto rischio di sviluppare demenza durante la vecchiaia.
Una ricerca pubblicata di recente dalla rivista JAMA Neurology ha esplorato il legame tra l’istruzione e i due principali segni patologici dell’Alzheimer: l’accumulo di proteina tau nei neuroni e la presenza di placche di beta-amiloide (Aβ) nel cervello. I ricercatori hanno osservato che, in assenza di placche di beta-amiloide, l’accumulo di tau era più lento nelle persone con un livello di istruzione elevato. Al contrario, in presenza di placche di Aβ, l’accumulo di tau risultava più rapido in chi aveva studiato di più.
Questi risultati potrebbero sembrare controintuitivi e vanno interpretati con cautela, considerando che la malattia è provocata da una complessa combinazione tra fattori genetici e ambientali.
UN PUZZLE ANCORA INCOMPLETO
«Le cause della demenza, e in particolare dell’Alzheimer, sono note solo in parte» sottolinea Paolo Maria Rossini, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione presso l’IRCCS San Raffaele di Roma.
E anche quando i meccanismi sono noti, resta molto da chiarire. «Sappiamo che i principali colpevoli della morte dei neuroni sono le placche beta-amiloidi, che si accumulano all’esterno delle cellule, e la proteina tau, che forma dei grovigli neurofibrillari in grado di distruggere i neuroni dall’interno. Ma la loro presenza non è necessariamente associata alla malattia: contiamo circa un 30-40% di “portatori sani” che, pur avendo placche e grovigli, non sviluppano demenze, per ragioni ancora sconosciute».
Ecco perché studi come quello pubblicato su JAMA Neurology vanno considerati come piccoli tasselli di un puzzle ancora tutto da assemblare, e non come verità definitive su come si sviluppa la demenza.
«Il ruolo protettivo dell’istruzione – e in generale del mantenere una mente attiva, studiando, imparando cose nuove, informandosi e mantenendo relazioni sociali – non è in discussione» precisa l’esperto. «D’altra parte, sappiamo che anche i grandi studiosi si ammalano di Alzheimer».
IL RUOLO DELLA RISERVA COGNITIVA
Il motivo per cui lo studio e l’apprendimento continuo proteggono le capacità cognitive nonostante il danno neuronale, è spiegato dal concetto di riserva cognitiva. Essa si costruisce nel corso di tutta la vita, grazie all’istruzione scolastica e allo svolgimento di attività stimolanti nell’età adulta.
Non si tratta tanto di avere più neuroni o un cervello più grande, quanto di sviluppare strategie alternative per compensare il danno provocato dalla malattia. L’idea è che un cervello attivo sappia ottimizzare le proprie risorse e, se un circuito cerebrale – per esempio quello della memoria o dell’attenzione – è danneggiato, riesca ad attivarne altri.
RISERVA, HARDWARE E CURA DEL CERVELLO
Oltre alla riserva cognitiva, esiste anche una forma di resilienza biologica innata, legata alla genetica. Questa sorta di «riserva hardware» consiste in un maggior numero di neuroni o in caratteristiche strutturali che rendono il cervello naturalmente più resistente ai sintomi.
La capacità di una persona di non mostrare sintomi, nonostante un danno cerebrale, dipende quindi dalla combinazione tra riserva cognitiva, riserva cerebrale e la cura con cui il cervello è stato mantenuto in salute nel corso della vita. Traumi cranici, esposizione a sostanze tossiche o uno stile di vita sedentario hanno un impatto negativo.
«In ogni caso, a un certo punto il cervello cede, e allora i sintomi progrediscono spesso più rapidamente in chi si era difeso a lungo grazie alle strategie compensatorie» aggiunge Rossini.
TRATTAMENTO PRECOCE PER ALCUNI PAZIENTI
Nello studio pubblicato su JAMA Neurology, i ricercatori osservano che, nelle persone con placche di amiloide, il trattamento precoce con solanezumab – un anticorpo monoclonale anti-amiloide – ha rallentato l’accumulo di tau. Per questo, secondo gli autori, è importante somministrare i trattamenti anti-Aβ nelle fasi precoci della malattia.
In Europa sono stati approvati due anticorpi monoclonali – lecanemab e donanemab – che riducono le placche di beta-amiloide. Sono indicati per pazienti in fase precoce della malattia, con lieve declino cognitivo e presenza confermata di placche Aβ.Questi farmaci sono attualmente in fase di valutazione in Italia, ma non sono ancora stati approvati per uso clinico e rimborso.
Rossini sottolinea però che non bastano la presenza di placche di amiloide e un lieve declino cognitivo a causare la malattia. Inoltre, i farmaci disponibili presentano importanti effetti collaterali, per cui è importante riuscire a selezionare con cura i pazienti che possono beneficiarne maggiormente.
IL PROGETTO INTERCEPTOR
Proprio per individuare in anticipo le persone più a rischio, è nato il progetto Interceptor, coordinato dallo stesso Rossini. Avviato nel 2018, è promosso dal Ministero della Salute e dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), e ha coinvolto 490 persone con disturbo cognitivo lieve.
«Si tratta di soggetti totalmente autonomi dal punto di vista fisico e cognitivo, ma in circa un quarto dei casi il disturbo progredisce verso la demenza entro tre anni» spiega l’esperto. «Abbiamo scoperto che i dati clinici, le informazioni socio-demografiche (sesso, età, anni di scolarità) e i test neuropsicologici permettono di prevedere l’evoluzione verso la demenza con un’accuratezza del 72%. Se aggiungiamo i biomarcatori, arriviamo all’82%».
A partire da questi dati, l’Istituto Superiore di Sanità ha sviluppato un nomogramma che utilizza otto fattori predittivi per stimare il rischio di sviluppare Alzheimer in persone con declino cognitivo lieve. «L’obiettivo è distinguere tra chi è a basso, medio o alto rischio, per concentrare risorse e interventi sui soggetti più vulnerabili. A loro si potranno proporre i nuovi farmaci, quando saranno disponibili in Italia, e nel frattempo si potranno promuovere stili di vita protettivi. Gli altri potranno essere monitorati nel tempo. Credo che questo sia l’approccio giusto da adottare in un’ottica di salute pubblica» conclude Rossini