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Neuroscienze

L’ADHD femminile esiste, ma lo vediamo tardi

La diagnosi nelle donne arriva spesso tardi, perché il modello clinico dell’ADHD è ancora costruito sul prototipo maschile

Le donne con ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, disturbo da deficit di attenzione e iperattività) ricevono spesso una diagnosi tardiva e soffrono, in media, di sintomi più gravi rispetto agli uomini. È quanto emerge da una ricerca spagnola condotta su 900 pazienti e pubblicata sulla rivista European Psychiatry.

Lo studio si inserisce in un filone di ricerca ancora poco esplorato: l’ADHD nelle donne. «Abbiamo un problema, sorto dal fatto che la descrizione dei sintomi e delle caratteristiche delle persone affette da questo disturbo deriva da osservazioni fatte soprattutto nei maschi, in cui le manifestazioni sono più evidenti e socialmente problematiche», spiega Sara Carucci, professoressa associata all’Università di Cagliari e responsabile della Clinica di neuropsichiatria infantile della ASL di Cagliari.

IL PROTOTIPO MASCHILE DELL’ADHD

L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo con manifestazioni diverse per genere. Nei bambini maschi si presenta spesso con comportamenti dirompenti, come iperattività, impulsività e aggressività, atteggiamenti che attirano l’attenzione di genitori e insegnanti, consentendo così al bambino di entrare in un percorso di cura.

Per le femmine, invece, le dinamiche sono diverse: le bambine con ADHD presentano in genere difficoltà di concentrazione, difficoltà di organizzazione, sintomi d’ansia e aggressività verbale. Non mostrano, di solito, comportamenti particolarmente preoccupanti per gli adulti che le circondano.

«Questo ha creato una sorta di bias, un prototipo maschile dell’ADHD, per cui le femmine sono state per lungo tempo scarsamente riconosciute: arrivano più tardi all’attenzione clinica, con conseguente ritardo nel trattamento.»

ANSIA, DEPRESSIONE E PENSIERI SUICIDI

Per le bambine che non ricevono una diagnosi, il momento più complesso arriva con il passaggio alla scuola secondaria: aumenta il carico di lavoro, cresce la necessità di organizzarsi in modo autonomo e di rispondere alle richieste degli insegnanti, e loro si sentono sopraffatte. «A questo punto l’autostima peggiora e alcune cercano di mascherare le difficoltà, di restare al passo con i coetanei, ma solo al prezzo di un grande sforzo e di un crescente stato d’ansia. Altre invece cadono nella depressione, con conseguenze anche gravi: pensieri suicidi e abuso di sostanze

Come sottolinea Carucci, l’ADHD è associato a un aumento del rischio di suicidio, che può essere legato sia alla depressione e a un esplicito intento suicidario, sia ai comportamenti impulsivi e a rischio tipici del disturbo, indipendentemente dal genere. «La mortalità è però più precoce nelle femmine, proprio perché vengono diagnosticate e trattate tardivamente.»

POCHI STUDI SULL’ADHD NELLE DONNE

Gli studi sull’ADHD nelle donne sono ancora pochi: circa l’80% dei partecipanti alle ricerche è costituito da maschi. Questo non solo ostacola la comprensione delle caratteristiche della malattia nelle femmine, ma porta anche allo sviluppo di una farmacologia tarata sulle caratteristiche maschili. «Oggi molti centri in Europa tengono conto delle differenze di genere anche nella valutazione della risposta ai farmaci», precisa Carucci. «Un altro filone di ricerca recentissimo riguarda il ruolo degli ormoni e la possibilità che i livelli di estrogeni influenzino l’andamento dei sintomi.»

IL RUOLO DEGLI ORMONI

Carucci fa parte del gruppo di lavoro dedicato all’ADHD nelle femmine dell’Eunethydis (European Network for Hyperactivity Disorders). In una review – che raccoglie i dati di tanti studi clinici – pubblicata di recente sulla rivista Frontiers in Global Women’s Health i ricercatori suggeriscono che le fluttuazioni ormonali nel corso della vita di una donna possono avere un impatto importante sui sintomi e sulla risposta ai farmaci.

«Mancano ancora ricerche approfondite sul tema, ma le osservazioni condotte finora indicano che, nelle fasi in cui il livello di estrogeni diminuisce – come il periodo premestruale, il postpartum o la menopausa – i sintomi tendono a peggiorare», spiega Carucci. Le fluttuazioni ormonali modulano infatti il rilascio di dopamina, neurotrasmettitore chiave della patologia: se aumentano gli estrogeni, aumenta anche il rilascio di dopamina, implicata nei meccanismi dell’attenzione e dell’umore.

«Se queste osservazioni venissero confermate, potremmo pensare di modulare l’uso dei farmaci, il dosaggio e la posologia in base alle fasi ormonali, per contrastare il peggioramento dei sintomi.»

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