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Neuroscienze

Noi siamo innocenti: è il cervello a commettere il reato

Una tesi inquietante su cui scienza e giurisprudenza dibattono e che potrebbe portare alla negazione del libero arbitrio grazie allo studio dei meccanismi del cervello

Noi siamo innocenti, e il cervello è colpevole. Intorno a questa asserzione provocatoria, una criminologa, un neuropsicologo e un giurista hanno aperto una finestra su un possibile futuro: la scienza potrebbe riuscire a dimostrare, grazie allo studio dei meccanismi cerebrali osservati dal vivo in neuroimaging, che il libero arbitrio non esiste. Tema inquietante, proposto dall’Ambrosianeum di Milano e dalla Fondazione Matarelli per un ciclo d’incontri che incrociano scienza ed etica,  ideato dal direttore scientifico della Fondazione, l’ematologo Giorgio Lambertenghi Deliliers.

 

LA  CRIMINOLOGA

Isabella Merzagora Betsos è ordinario di Criminologia all’Università degli Studi di Milano. Dice: «Come si fa a non occuparsi anche del problema filosofico, quando si parla di crimine?  C’è un determinismo di vecchia data che parte da Cesare Lombroso ed Enrico Ferri, ma ora c’è qualcosa di nuovo: alcuni neuroscienziati sono convinti che la scoperta dei meccanismi cerebrali farà piazza pulita della nostra convinzione di essere liberi. Il pensiero è una “secrezione” del cervello. Sono i nostri cervelli a commettere i reati, noi siamo innocenti

Davvero il cervello agisce autonomamente, automaticamente, come un “sistema biologico”che vive di vita propria, indipendente dalla volontà del soggetto? La criminologa ricorda un esperimento diventato famoso, su cui la neurologia continua ad interrogarsi  alla luce della filosofia. Lo psicologo e neurologo americano Benjamin Libet, avvalendosi delle tecniche di neuroimaging che segnalano l’attività delle zone del cervello, volle cercare di capire il momento in cui un atto diventa cosciente, vale a dire quando entra in campo la volontà di compierlo.

Spiega Merzagora: «Libet volle determinare il tempo che intercorre tra l’esecuzione di un atto e il rendersi conto di farlo. E trovò che il cervello entrava in azione prima che il soggetto avesse coscienza di quello che faceva: più precisamente, le strumentazioni rivelavano uno “scarto” di 0,5 secondi tra l’inizio dell’atto e l’intenzione cosciente di agire. Secondo Libet, il libero arbitrio – se esiste – non inizia come attività volontaria».  E se applicassimo questa scoperta a un atto omicida, per esempio? Libet si affacciò sull’abisso  con l’oscillometro a raggi catodici, con l’elettroencefalografo, con l’elettromiografo e con il monitor che registra l’attività neurale.

Libet è scomparso nel 2007,  ma il suo filone di studio si espande. Conclude Merzagora:  «Un’adesione a un determinismo hard  farebbe saltare tutto, ma i prodigiosi strumenti per il neuroimaging  potranno essere applicati alla responsabilità. Con una nuova tecnica di accertamento, negli Stati Uniti sono già stati scarcerati centinaia di detenuti, tra cui dei condannati a morte.»

 

IL NEUROPSICOLOGO

Stefano Francesco Cappa è ordinario di Neuropsicologia all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. Afferma  che le neuroscienze non dicono nulla sulla libera scelta, ma che il cervello “parla”, quando prendiamo decisioni. Ricorda uno studio pubblicato nel 2010 su Pnas (Proceeding  of the National Academy of Science). Questo studio esamina le reazioni in base alle quali si forma un giudizio, a partire da una semplice storia che viene fatta leggere a un gruppo di volontari: «Grace e una sua amica visitano un impianto chimico.

Poi vanno a prendersi un caffè alla macchinetta, e l’amica cerca lo zucchero. Grace vede un barattolo di polvere bianca con l’etichetta “zucchero” e ne mette un cucchiaino nel caffè dell’amica. L’amica muore. Non era zucchero, ma una sostanza letale messa lì da qualcuno. La storia viene fatta leggere a molti, uomini e donne. Chiedendo di dare un punteggio da 1 a 7 (da “vietato” ad “ammissibile”) al comportamento di Grace.» C’è chi considerò il comportamento di Grace del tutto irresponsabile, e quindi “vietato”, e chi fu meno severo.

Con le strumentazioni si rilevò che per emettere il giudizio si attivava la corteccia frontale del cervello. La grossa sorpresa fu che se si provava ad inviare alla corteccia frontale un impulso elettrico molto breve, del tutto indolore e innocuo, il giudizio sul comportamento di Grace cambiava: chi era stato severo, diventava più indulgente, e viceversa. Che cosa significa, questo? Che il  cervello si può manipolare?

 

IL GIURISTA

Alessio Lanzi è ordinario di Diritto Penale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Afferma che è difficile incrociare il diritto penale con la scienza, perché il diritto è una materia sociale, concreta, che ha come fine ultimo la sicurezza sociale. Questa è la grande differenza con le scienze. Ma nel momento in cui la scienza sembra sul punto di mettere in forse il libero arbitrio, nel discorso viene trascinato anche il concetto di imputabilità. L’individuo era cosciente di commettere un reato? Per il diritto, l’imputabilità consiste nella capacità d’intendere e di volere.

Spiega Lanzi: «L’imputabilità è il presupposto della colpevolezza. Il legislatore in certe situazioni afferma che il soggetto non è responsabile, perché incapace d’intendere e di volere. A parte le situazioni dovute all’età e a malattie pregresse, chi è incapace d’intendere e di volere non può essere considerato responsabile».  Il riconoscimento d’infermità mentale non è d’uso corrente, ma Lanzi rintraccia una “apertura” del diritto in questo senso: in una sentenza del 2005 («Da allora è una guida per i giudici») emessa dalla Corte di Cassazione Penale a sezioni unite: “I disturbi della personalità possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità d’intendere e di volere».

Un cervello colpevole e noi innocenti? Qui le domande si aprono all’infinito, a scatole cinesi. Che cos’è il cervello? Coincide o no con il nostro essere? Lanzi, con uno sguardo al futuro, esprime l’idea che tutto potrebbe essere rimesso in gioco:  «Ultimamente le neuroscienze hanno puntato all’idea di un cervello che è come una macchina. E’ un determinismo che potrebbe cambiare il diritto penale.»

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