Trattare solo chi ne ha davvero bisogno e risparmiare la chemioterapia a chi non ne trae beneficio: è l’obiettivo di una nuova frontiera della medicina di precisione che passa da un semplice prelievo di sangue alla ricerca del Dna tumorale circolante. Due importanti studi presentati al congresso della European Society for Medical Oncology (ESMO) hanno dimostrato che usare questa informazione per guidare le terapie dopo l’intervento non solo è possibile, ma porta a risultati concreti: nel tumore della vescica migliorando la sopravvivenza, nel colon evitando chemio inutili.
IL MINIMO TRATTAMENTO EFFICACE
«Dal massimo trattamento tollerato al minimo intervento efficace». Il principio elaborato da Umberto Veronesi con la quadrantectomia – l’intervento che consente di conservare il seno nei tumori localizzati di piccole dimensioni – è oggi alla base di molti protocolli oncologici volti a ridurre le terapie inutili e l’impatto sulla qualità di vita. In quest’ottica, la ricerca sta puntando su strategie sempre più personalizzate, capaci di adattare l’intensità delle cure alle reali necessità di ciascun paziente.
IL RUOLO DELLA BIOPSIA LIQUIDA
Per decidere se e quando somministrare una determinata terapia esistono già oggi diversi strumenti diagnostici. Nel tumore al seno, ad esempio, l’analisi del Dna tumorale grazie a test come Oncotype DX consente di stabilire quali pazienti possono evitare la chemioterapia dopo l’intervento, mantenendo lo stesso rischio di recidiva. Un ruolo sempre più rilevante lo sta assumendo anche la biopsia liquida, ovvero l’analisi del sangue del paziente alla ricerca di frammenti di Dna tumorale.
Oltre a monitorare l’efficacia delle cure, la biopsia liquida può essere utilizzata per stabilire se proseguire o meno con determinate terapie. Il concetto è semplice: se dopo un intervento chirurgico il Dna tumorale non è più rilevabile, è ragionevole pensare che il paziente non necessiti di ulteriori trattamenti anti-recidiva.
LA TERAPIA SONO QUANDO SERVE
Il primo studio (IMvigor011), presentato ad ESMO e condotto su 761 pazienti, ha riguardato il carcinoma della vescica muscolo-invasivo. In questa forma di tumore non tutti i pazienti traggono beneficio dalla terapia adiuvante dopo la rimozione chirurgica della malattia. Attraverso la ricerca del Dna tumorale circolante dopo l’intervento, i ricercatori hanno identificato 251 pazienti che presentavano ancora segni molecolari di malattia e per i quali una terapia aggiuntiva poteva essere utile.
I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: uno ha ricevuto l’immunoterapia atezolizumab, l’altro un placebo, per valutare se il farmaco potesse migliorare gli esiti solo nei pazienti a rischio molecolare.
Dalle analisi è emerso che i pazienti negativi per il Dna circolante avevano una probabilità di recidiva molto bassa: l’88% non presentava segni di malattia a due anni dall’operazione. Tra i pazienti positivi, invece, il rischio di recidiva o morte per chi ha ricevuto l’immunoterapia si è ridotto del 36% rispetto al gruppo placebo. A parità di tempo, dunque, chi ha ricevuto atezolizumab ha avuto meno eventi di recidiva o decesso, confermando l’utilità della biopsia liquida per identificare chi ha davvero bisogno di un trattamento adiuvante.
EVITARE UNA CHEMIOTERAPIA TROPPO PESANTE
Il secondo studio (DYNAMIC-III) ha avuto come protagonista il tumore del colon-retto in fase III, una situazione in cui dopo l’intervento chirurgico è generalmente necessario sottoporsi a chemioterapia per ridurre il rischio di recidiva. Tuttavia, la durata e l’intensità ottimali del trattamento non sono ancora chiare. Utilizzando anche in questo caso la biopsia liquida per individuare la presenza di malattia residua, le persone negative al test potevano ridurre o addirittura evitare la chemioterapia con oxaliplatino.
Nello studio, che ha coinvolto 968 pazienti, 702 sono risultati negativi al test. Tra questi, un gruppo è comunque stato sottoposto alla chemioterapia, mentre l’altro ha ridotto o in alcuni casi evitato il trattamento.
Dalle analisi è emerso che guidare le decisioni terapeutiche con il test ha permesso di ridurre in modo significativo l’impiego di oxaliplatino: solo un terzo dei pazienti (34,8%) ha ricevuto il farmaco, contro quasi nove su dieci (88,6%) tra coloro trattati secondo la strategia standard. Anche gli effetti collaterali gravi sono risultati meno frequenti (6,2% dei pazienti rispetto al 10,6%), così come le ospedalizzazioni legate alla tossicità della terapia (8,5% rispetto al 13,2%). Il tutto senza compromettere l’efficacia del trattamento: a tre anni, infatti, la sopravvivenza libera da recidiva è risultata pressoché identica nei due gruppi (85,3% contro 88,1%).
PERSONALIZZARE LE TERAPIE GRAZIE ALLA BIOPSIA LIQUIDA
In entrambi i tumori, il test di biopsia liquida si è confermato uno strumento chiave per personalizzare le terapie dopo la chirurgia. Nel colon ha consentito di ridurre o evitare la chemioterapia nei pazienti a basso rischio, limitando gli effetti collaterali; nella vescica ha permesso invece di intensificare il trattamento solo in chi presentava ancora tracce molecolari di malattia. Un passo avanti verso una medicina più razionale e più attenta alla persona, in cui le cure vengono calibrate sul rischio reale di recidiva, risparmiando ai pazienti trattamenti inutili e migliorando la qualità di vita. Un approccio che, grazie alla biopsia liquida, potrebbe presto entrare nella pratica clinica quotidiana.


