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Oncologia

L'inglese non è tutto

Nelle migliori università italiane oggi il corso di laurea in medicina è strutturato nella lingua "universale". Un'opportunità per competere a livello internazionale, purché non si perda di vista l'importanza dell'empatia nel contatto col paziente

Per chi vuole fare bene il medico, saper l’inglese è diventata una necessità assoluta. Leggere un lavoro scientifico, andare all’estero, confrontarsi con colleghi stranieri, frequentare congressi internazionali o prestigiosi istituti anglosassoni, sono ormai opportunità da non perdere. Da ciò un plauso alla istituzione di nuove facoltà mediche in cui l’inglese diventa lingua ordinaria di insegnamento e di apprendimento. Avremo quindi medici con una marcia in più? Che cosa suggerire ai nuovi docenti e discenti? Che non ci si deve sentire “diversi” perché si impara e si insegna in inglese. Né ci si deve sentire sminuiti se si frequentano le facoltà tradizionali che usano la madre lingua.

francesi, che anche nelle competizioni tennistiche internazionali (Roland Garros) rifiutano orgogliosamente di segnare i punti in lingua anglosassone, non si sentono per nulla sminuiti e provinciali. Sfornano medici bravi e competenti che hanno studiato in francese e hanno imparato l’inglese in corsi specifici al di fuori della facoltà medica. Il non usare la lingua madre in una nuova università è cosa utile, ma non deve essere un “blasone” aristocratico né per gli studenti  né far  dimenticare ai maestri che l’esempio è la cosa più importante.

Chi insegna deve essere figura di riferimento che non da solo nozioni, ma testimonia col comportamento il valore dell’atto medico impegnandosi nelle grandi come nelle piccole cose a vantaggio del paziente. A volte basta una parola per spiegare e tranquillizzare un malato. E qui ci vuole l’italiano.

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