Le nuove diagnosi di HIV in Italia restano stabili: nel 2024 sono stati registrati poco più di 2.300 casi, in linea con l'anno precedente. Ma questa è la sola buona notizia poiché il dato negativo più rilevante riguarda il momento della scoperta. Sei persone su dieci arrivano alla diagnosi quando il sistema immunitario è già compromesso. Una quota che continua a crescere e che conferma quanto la percezione del rischio resti bassa, soprattutto tra gli uomini adulti. Ad affermarlo è il nuovo report dell’Istituto Superiore di Sanità dedicato all'infezione da HIV e pubblicato in occasione della Giornata Mondiale contro l'AIDS che si celebra ogni primo dicembre.
I MOTIVI DEL CONTAGIO
Analizzando in maniera approfondita il documento si scopre che nel 2024 sono state registrate 2.379 nuove diagnosi di infezione da HIV, pari a un’incidenza di 4 casi per 100.000 residenti, un valore inferiore rispetto alla media dell’Europa occidentale (5,9 per 100.000). Dal 2012 la quasi totalità delle nuove diagnosi è attribuibile alla trasmissione sessuale: il 46% dei nuovi casi è stato legato a trasmissione eterosessuale (27,9% uomini e 18,1% donne), mentre il 41,6% ha riguardato uomini che fanno sesso con uomini (MSM). Solo il 3,8% è attribuibile all’uso di sostanze iniettabili. Dopo una riduzione costante tra il 2012 e il 2020, le nuove diagnosi sono tornate a crescere fino al 2023, per poi stabilizzarsi nel 2024 ai livelli dell’anno precedente.
QUANDO L'INFEZIONE È UNA COSA DA ADULTI
Le nuove diagnosi riguardano soprattutto persone adulte. L’età mediana alla diagnosi è di 41 anni e oltre la metà dei casi si concentra tra i 30 e i 49 anni. I giovanissimi restano una minoranza: nella fascia 15-24 anni si osserva meno del 7% delle nuove diagnosi. Al contrario, aumenta il peso delle età più avanzate. Le persone sopra i 50 anni rappresentano ormai un terzo dei nuovi casi, una quota in costante crescita negli ultimi anni. Anche il dato per nazionalità riflette questa tendenza: tra gli italiani l’età mediana è più elevata, mentre tra gli stranieri la diagnosi avviene in media a 36 anni.
DIAGNOSI SEMPRE PIÙ TARDIVE
Il dato più allarmante del report riguarda le diagnosi tardive. Il 60% delle persone scopre l’infezione quando il sistema immunitario è già compromesso, a distanza di molti anni dal contagio. «È il segnale più chiaro della scarsa percezione del rischio, soprattutto tra gli adulti. Molti non pensano minimamente all’HIV, non si testano per anni e arrivano alla diagnosi solo quando compaiono sintomi importanti» spiega Barbara Suligoi, responsabile del Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità. . Nella pratica clinica, la scoperta avviene spesso in modo incidentale. È il medico a richiedere il test per esclusione, dopo aver indagato altre possibili cause.
Ma le diagnosi tardive non sono solo un problema clinico individuale. Sono anche uno dei principali motori della circolazione del virus. «Chi non sa di essere positivo e viene diagnosticato tardivamente contribuisce involontariamente ma in modo significativo alla diffusione di nuove infezioni. La terapia antiretrovirale quando iniziata precocemente azzera la trasmissione, ma se la diagnosi arriva dopo anni il trattamento diventa meno efficace e la sopravvivenza diminuisce» sottolinea l'esperta.
IL CASO DEGLI MSM: L'ABITUDINE AL TEST
In netto contrasto con quanto osservato nella popolazione adulta eterosessuale, gli MSM sono il gruppo più propenso a testarsi con regolarità. Lo mostrano chiaramente i dati: rappresentano poco più del 40% delle nuove diagnosi, ma sono anche la categoria con la più alta quota di infezioni recenti, un indicatore che riflette un monitoraggio più attento della propria salute sessuale. «Negli MSM vediamo un’abitudine al test molto più consolidata» spiega la Suligoi. Una componente essenziale riguarda i canali di prevenzione già attivi: checkpoint comunitari, ambulatori dedicati, campagne rivolte alla comunità LGBTQIA+, oltre all’accesso alla PrEP. «Sono servizi che funzionano e che intercettano rapidamente chi ha avuto un rapporto a rischio. Il risultato è che gli MSM hanno una maggiore probabilità di essere diagnosticati precocemente. E una diagnosi precoce significa minore carica virale, maggiore successo della terapia e un impatto minore sulla trasmissione» spiega l'esperta.
LA SITUAZIONE NEI GIOVANISSIMI
Una riflessione a parte però la meritano i più giovani. Nella fascia di età 15-24 anni l’epidemia appare numericamente contenuta ma questo dato va interpretato con cautela. La quota di diagnosi in questa fascia è bassa, ma potrebbe riflettere più la scarsa percezione del rischio che una reale minore esposizione. La maggior parte dei giovanissimi, infatti, non conosce l’HIV, non si percepisce vulnerabile e non ricorre al test se non in situazioni molto specifiche. A questo si aggiungono due segnali preoccupanti: l’aumento costante delle altre infezioni sessualmente trasmesse e l’uso del preservativo ai minimi storici. Elementi che suggeriscono che il numero di diagnosi potrebbe non fotografare pienamente la circolazione del virus nella popolazione giovanile.
CONSAPEVOLEZZA E TEST
Anche se i dati fotografano una situazione certamente migliore rispetto alla media europea, per l'Italia è vietato sedersi sugli allori. Al di là del fatto -e la pandemia ce lo ha insegnato- che il virus non conosce confini, i dati ci dicono che l’infezione continua a circolare e che continuiamo ad arrivare troppo tardi alla diagnosi. La priorità, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, è ricostruire la consapevolezza sul rischio associato al sesso occasionale non protetto. «Negli ultimi anni l’uso del preservativo è crollato e l’aumento delle altre infezioni sessualmente trasmesse lo dimostra chiaramente. Dobbiamo tornare a spiegare in modo semplice che il sesso non protetto espone anche all’HIV, e che non conoscere questa informazione porta a diagnosi troppo tardive» spiega l'esperta.
Il secondo punto riguarda il test: portarlo dentro le abitudini di prevenzione semplificando e anonimizzando al massimo l’accesso. «Oggi il test HIV si può fare ovunque: nei servizi sanitari, nelle associazioni, nei checkpoint, nelle campagne di screening mobili, perfino a casa con i test fai da te. Dobbiamo promuoverlo con la stessa logica utilizzata per lo screening dell’epatite C: offrire il test quando è più facile farlo, portarlo vicino alle persone, proporlo anche quando non lo chiedono esplicitamente». Diagnosi precoce significa terapia immediata, carica virale azzerata, migliore qualità della vita e nessuna trasmissione. «È questo il punto. Intercettare l’infezione in tempo non è solo una questione clinica individuale: è lo strumento più efficace che abbiamo per rallentare davvero l’epidemia. Ma perché questo avvenga, bisogna tornare a parlare di HIV» conclude l'esperta.


