Il dialogo tra medico e paziente migliora le cure per il Crohn
La collaborazione medico-paziente riduce del venti per cento i costi sociali della malattia di Crohn e della rettocolite ulcerosa. Sui cittadini gravano gli esami diagnostici
Le malattie infiammatorie croniche intestinali - più nello specifico: il morbo di Crohn e la rettocolite ulcerosa - hanno un impatto significativo sulla vita di chi ne soffre: almeno 150mila persone, soltanto in Italia. Ma la loro gestione migliorerebbe in maniera sensibile se soltanto si investisse maggiormente sul rapporto umano tra chi ne soffre e gli specialisti che se ne prendono cura. È questo il dato che emerge da una ricerca realizzata da Amici onlus con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
L'indagine, realizzata intervistando 852 pazienti e 98 gastroenterologi, era volta a definire la qualità delle cure ricevute dalle persone affette da una malattia infiammatoria cronica intestinale. Dall'analisi delle risposte, è emerso che molto più della metà dei pazienti intervistati (71 per cento) si considera poco coinvolto nella gestione della propria condizione di salute. Prevale dunque ancora il modello secondo cui il paziente altro non è che un mero esecutore delle disposizioni del medico: un riscontro in linea con quello registrato anche in analoghe indagini condotte su campioni di pazienti affetti da altre malattie croniche. Nella pratica, soltanto un gastroenterologo su dieci s'è rivelato in grado di considerare il paziente un membro effettivo del team di cura: quasi sempre si trattatava di medici giovani (con meno di dieci anni di esperienza), in prevalenza donne. Lascia però ben sperare il dato (69 per cento) di coloro che hanno dichiarato di concepire il ruolo attivo del paziente nella sua possibilità di esprimere giudizi e aspettative soggettive verso il percorso di cura.
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CON LA RELAZIONE MIGLIORA PURE LA TERAPIA
Eppure, dati alla mano, i pazienti più vicini ai propri specialisti di riferimento sono risultati anche coloro che più aderiscono alle terapie: spesso lunghe o comunque da riprendere in occasione delle periodiche riacutizzazioni delle malattie. Secondo gli autori della ricerca, «i risultati indicano come il coinvolgimento attivo del malato nel processo di cura generi una migliore gestione della malattia, aumenti l’aderenza ai trattamenti, migliora lo stile di vita del malato e porta una diminuzione dei costi sanitari». Tradotto: i medici devono dedicare più tempo al vissuto e ai bisogni psicologici dei loro pazienti, comunicando e informandoli in maniera più esauriente. Un passo che conviene a tutti, dal momento che determina anche una sensibile riduzione della spesa sanitaria diretta: ovvero farmaci, visite ed esami. Il calo può arrivare anche al venti per cento, accompagnato da una riduzione dei giorni di assenza dal luogo di lavoro (fino al 25 per cento).
I COSTI DELLE MALATTIE
In contemporanea a questi dati, sono stati infatti diffusi anche quelli relativi al cosiddetto «burden» economico dei pazienti colpiti da una malattia infiammatoria intestinale. Il costo medio annuo a carico di un paziente affetto da malattia di Crohn o rettocolite ulcerosa - condotta sempre da Amici onlus in collaborazione con l’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma - ammonta a 746 euro. Mentre, considerando le perdite di produttività generate dall’essere affetto da tale malattia i costi medi raggiungono i 2258 euro. «Il paziente risente degli effetti economici della malattia - afferma Marco Daperno, gastroenterologo all'ospedale Mauriziano di Torino- . Deve acquistare spesso integratori e farmaci non mutuabili, oltre a dover effettuare delle cure anche in altre regioni rispetto a quella di appartenenza. A ciò si aggiunge la perdita di guadagni per il mancato lavoro». Secondo Enrica Previtali, presidente dell’Associazione nazionale Amici onlus «queste indagini forniscono dati utilissimi per ottimizzare la presa in carico e la gestione delle persone affette da una malattia infiammatoria cronica dell’intestino. Occorre ridurre il carico economico che ancora grava sui pazienti, soprattutto per prestazioni che non sono previste nei livelli essenziali d'assistenza: come per esempio gli esami di screening necessari prima di iniziare una terapia con farmaci biotecnologici».
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Non rivolgersi a personale non sanitario e attenzione a coloro che praticano professioni sanitarie senza averne alcun titolo Spesso i test non validati per la diagnosi di intolleranza alimentare vengono proposti da figure professionali eterogenee, non competenti, non abilitate e non autorizzate, anche non sanitarie. Non effettuare test per intolleranze alimentari non validati scientificamente in centri estetici, palestre, farmacie, laboratori o in altre strutture non specificatamente sanitarie. Solo il medico può fare diagnosi
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Non escludere nessun alimento dalla dieta senza una diagnosi ed una prescrizione medica Le diete di esclusione autogestite, inappropriate e restrittive possono comportare un rischio nutrizionale non trascurabile e, nei bambini, scarsa crescita e malnutrizione. Quando si intraprende una dieta di esclusione, anche per un solo alimento o gruppo alimentare, devono essere fornite specifiche indicazioni nutrizionali
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Non eliminare latte e derivati dalla dieta senza una diagnosi certa di intolleranza al lattosio o di allergie alle proteine del latte La diagnosi di intolleranza al lattosio o allergie alle proteine del latte deve essere effettuata in ambito sanitario specialistico e competente, tramite test specifici e validati
A chi rivolgersi per una corretta diagnosi? Esclusivamente a un medico: dietologo, medico di medicina generale, pediatra di libera scelta, allergologo, diabetologo, endocrinologo, gastroenterologo, internista, pediatra
Non usare internet per diagnosi e terapia Il web, i social network ed i mass media hanno un compito informativo e divulgativo e non possono sostituire la competenza e la responsabilità del medico nella diagnosi e prescrizione medica