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Tubercolosi: perché è diventata resistente ai farmaci?

I microrganismi insensibili a tutte le tipologie di farmaci non sono una novità. Scarsa qualità dei medicinali, diagnosi tardive e cicli di cura non seguiti per intero alla base del fenomeno

Nei giorni scorsi, la notizia della scoperta avvenuta in India di un microrganismo resistente a qualsiasi farmaco anti-tubercolosi, ha destato non poche preoccupazioni anche nel nostro paese. Secondo le autorità indiane sarebbero già una dozzina i casi accertati. Allarmismo giustificato?

IL CASO INDIA - Lo stato asiatico rappresenta il paese per eccellenza in relazione al numero di malati di tubercolosi. Secondo l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'India è la nazione che fa registrare il più alto numero di casi di TBC e quasi 1000 decessi al giorno. A far scattare l'allarme, in un paese già così colpito da questa piaga, è stato l'isolamento di un nuovo ceppo batterico resistente ai farmaci attualmente in uso. «Il Mycobacterium tubercolosis isolato in India fa parte di una categoria di microrganismi che noi chiamiamo TDR (Totally Drug Resistant), ovvero resistenti a tutti i farmaci disponibili sul mercato. Il dato importante è che la resistenza è stata testata in vitro a partire dai fluidi biologici dei malati. Il vero problema è capire se esiste una correlazione per tutti i farmaci tra la risposta clinica e il saggio in vitro» spiega la dottoressa Daniela Cirillo, responsabile dell'unità Emerging Bacterial Diseases dell'Istituto Scientifico San Raffaele di Milano.

LA RESISTENZA - Se ad una persona viene diagnosticata la tubercolosi in forma attiva l'approccio farmacologico è la sola via per arrivare alla guarigione completa. L'utilizzo dei farmaci però non è esente da problemi. Il caso India è solo l'ultimo di una lunga serie. «La presenza di microrganismi di tipo TDR non è di certo una novità. Alla base del fenomeno della resistenza vi sono una serie di cause. Spesso si registra in microrganismi isolati da pazienti con diagnosi effettuate in ritardo, che hanno avuto prescrizioni non adeguate, che possono aver assunto farmaci qualitativamente scadenti ed infine, dato molto importante, che non hanno seguito per intero il ciclo di cura» spiega la Cirillo. Queste variabili possono portare alla selezione di ceppi batterici via via più resistenti.

TEST POSITIVO - Quando si parla di tubercolosi non è raro confondere una semplice positività all’infezione con la ben più grave malattia conclamata. Il nostro sistema immunitario infatti è in grado autonomamente di arginare l'invasione del microrganismo e mantenerlo in uno stato di quiescenza, ovvero una situazione nella quale i sintomi della malattia non sono presenti. Queste persone quindi non sono malate. Non solo, come spiega la dottoressa Cirillo «hanno una bassa possibilità di sviluppare la tubercolosi nel corso degli anni. Infatti, più del 90% delle persone che hanno contratto l’infezione non sviluppano la malattia, chi ha contratto l’infezione può ulteriormente ridurre il rischio di sviluppare la malattia se opportunamente trattato. Per questo è molto importante identificate i soggetti a rischio di infezione».

PERSONE A RISCHIO - Qual è allora l'identikit del restante 10%? La tubercolosi è considerata una malattia strettamente legata anche alle precarie condizioni di vita. In questa categoria quindi entrano d'obbligo sia le persone immunocompromesse, come i malati di HIV o i pazienti in cura con terapia immuno-soppressive a causa di trapianti o chemioterapia, sia gli individui in precarie condizioni igienico-sanitarie. «Questi ultimi, spesso provenienti da paesi dove la tubercolosi è endemica, giunti nel nostro paese possono andare in contro ad un abbassamento delle difese immunitarie e passare quindi ad una forma attiva di malattia. Per questa ragione è necessario concentrare gli sforzi in materia di prevenzione proprio su queste fasce di popolazione, gli individui infetti possono essere trattati per ridurre notevolmente il rischio di sviluppare la TBC» conclude la Cirillo.

Daniele Banfi

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