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I nostri ricercatori
Alessandro Vitale
pubblicato il 28-01-2020

Il legame tra autofagia e mesotelioma pleurico maligno



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Il mesotelioma pleurico maligno è un tumore raro, a lento sviluppo, ma aggressivo. Il legame con l’autofagia potrebbe aiutarci a combatterla più efficacemente: il progetto di Simone Patergnani

Il legame tra autofagia e mesotelioma pleurico maligno

Il mesotelioma pleurico è un tumore che origina dal mesotelio, la membrana che riveste e protegge i polmoni. Il principale fattore di rischio per lo sviluppo di questa neoplasia è l’esposizione all’amianto, un materiale molto utilizzato in passato nelle costruzioni e nei rivestimenti per via del suo elevato potere isolante. Sebbene la produzione, la lavorazione e la vendita dell'amianto siano fuori legge in Italia dal 1992, le sue fibre sono state usate molto a lungo e oltre il 90 per cento dei pazienti che ricevono questa diagnosi ha una storia clinica in cui è presente l’esposizione a questo materiale.

Oggi non esiste un esiste un protocollo terapeutico standardizzato per la cura del mesotelioma pleurico maligno. E spesso è difficile distinguere le lesioni benigne della pleura dalle formazioni cancerose. Per questi motivi, e considerando lo sviluppo molto lento di questo tipo di tumore (nell’ordine di decenni), sviluppare nuovi strumenti di cura e diagnosi precoce potrebbe essere di grande importanza per i pazienti colpiti.


Questo il lavoro di Simone Patergnani, biologo dell’Università degli Studi di Ferrara, che porterà avanti il suo progetto grazie al sostegno di una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

 

Simone, il tuo progetto studia il mesotelioma pleurico, un tumore correlato all’esposizione da amianto. Di cosa ti occupi di preciso?

«Il mio progetto si occupa di ricercare nuovi approcci terapeutici e possibili marcatori biologici per contrastare il mesotelioma pleurico maligno. Oggi non esiste una cura efficace per contrastare o rallentare la crescita di questo tumore. Con la nostra ricerca valuteremo l’effetto di una serie di farmaci capaci di modulare uno specifico processo molecolare chiamato autofagia».

 

Perché scegliere questo particolare processo cellulare come oggetto di studio?

«Una serie di risultati preliminari indicano come questi farmaci, capaci di modulare il processo autofagico, possono essere utilizzati per aumentare l’efficacia della terapia convenzionale contro il mesotelioma pleurico maligno. Queste molecole, tuttavia, presentano forti effetti collaterali e il loro esatto meccanismo d’azione resta ancora non ben definito. Grazie al finanziamento di Fondazione Umberto Veronesi, saremo in grado di confermare il loro funzionamento e avere altre informazioni sul legame tra autofagia e mesotelioma».

 

Quali?

«Per esempio verificheremo se una serie di molecole circolanti correlate a questo particolare processo cellulare possano avere un valore diagnostico o prognostico per la malattia. Questo permetterebbe di identificare dei marcatori biologici importanti per la diagnosi e il monitoraggio della malattia».

 

Raccontaci la tua giornata «tipo» in laboratorio.

«Non ho uno schema preciso e ogni giornata è totalmente diversa dall’altra. È questo il bello della ricerca. Generalmente inizio la giornata preparando gli esperimenti per i giorni successivi e portando a termine quelli iniziati nei giorni precedenti. Poi, tra un esperimento e l’altro, mi dedico a elaborare i dati, leggere articoli scientifici e mi interfaccio con responsabili e colleghi per risolvere eventuali problemi e discutere insieme dei risultati ottenuti».

 

Sei mai stato all’estero per ricerca?

«Sì, al Cancer Center dell’Università delle Hawaii e alla New York Stem Cell Fundation a New York».

 

Cosa ti ha spinto ad andare?

«La voglia di mettermi in gioco e fare esperienze lavorative diverse. Queste esperienze sono state utili per crescere professionalmente, ma soprattutto da un punto di vista personale. Se ho possibilità torno volentieri in quei posti per rivedere le persone conosciute e portare avanti queste amicizie».

 

C’è un momento in cui hai scelto di diventare ricercatore?

«Mio papà lavora come tecnico di laboratorio in un laboratorio analisi. Spesso mi capitava di trascorrere dei momenti insieme a lui in questi laboratori. Vedendo il mio interesse per il suo lavoro, a Natale mi capitava di ricevere anche dei microscopi giocattolo».

 

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Spero di essere sempre qua a dare il mio contributo al mondo della ricerca. Naturalmente con la speranza di ottenere una buona posizione professionale che mi permetta di continuare a farlo».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il fatto che c’è sempre un mondo nuovo dietro a ogni esperimento».

 

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Tutti gli aspetti che vanno altre alla ricerca vera e propria».

 

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Due mondi di cui si dovrebbe sentire parlare maggiormente da parte dei media, in modo da aumentarne la conoscenza».

 

Una figura che ti ha ispirato nella tua vita personale o professionale.

«Potrei sembrare banale, ma penso che mio papà, con il suo lavoro da tecnico di laboratorio, sia stata la figura che mi ha ispirato di più. Mi ha insegnato a essere sempre me stesso, indipendentemente dalle persone che ci si trova davanti».

 

Cosa fai nel tempo libero?

«Gioco a calcio in una società dilettantistica e spesso svolgo attività di volontariato per permettere ai più giovani di avere un posto dove imparare a crescere in gruppo».

 

Hai famiglia?

«Convivo con la mia ragazza».

 

Se un giorno tuo figlio ti dicesse di voler fare il ricercatore, cosa gli diresti?

«Sarei contento di questa scelta. Sicuramente però gli o le direi che non è un mondo semplice».

 

Hai qualcosa che ti fa ridere di gusto?

«Le cene con la squadra di calcio offrono tante occasioni per ridere a crepapelle».

 

Il libro/film che più ti piace o ti rappresenta.

«“Ci alleniamo anche se piove? Miserie e splendori del calcio dilettantistico”».

 

Un ricordo a te caro di quando eri bambino.

«Tutti i momenti trascorsi con la mia famiglia».



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