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Francesca Borsetti
pubblicato il 22-11-2022

Il recettore AhR come nuovo bersaglio terapeutico contro l’ictus



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Una molecola contenuta in alcuni vegetali potrebbe limitare i danni provocati dalla rottura della membrana ematoencefalica durante un’ischemia: la ricerca di Joanna Rzemieniec

Il recettore AhR come nuovo bersaglio terapeutico contro l’ictus

In Italia l’ictus rappresenta la terza causa di morte e la prima causa di invalidità, ed è provocato dall'improvvisa ostruzione o rottura di un vaso cerebrale, con conseguente danno alle cellule irrorate da quell'arteria: non ricevendo più l’ossigeno e i nutrimenti necessari, queste vanno incontro alla morte.

Nelle prime fasi dell’evento si ha anche la rottura della barriera ematoencefalica, una struttura che protegge il cervello e ne regola gli scambi di molecole con la circolazione sanguigna. Ciò causa emorragie e può espandere ulteriormente il danno cerebrale. La tempestiva riparazione della barriera ematoencefalica (BEE) è dunque una strategia estremamente importante per limitare gli effetti dell’evento iniziale.

Joanna Rzemieniec è ricercatrice presso l’Università di Milano e studia l’azione protettiva di una molecola contenuta in alcuni vegetali sulle cellule endoteliali cerebrali che costituiscono la BEE, durante un ictus. Il 3,3' - indolilmetano agirebbe bloccando la funzione di un recettore chiave, l’AhR, coinvolto nella “accensione” dei geni miR-212/13, che regolano la permeabilità della BEE. Lo scopo del suo lavoro sarà valutare gli effetti di questa molecola in un modello cellulare di ictus, per chiarire gli eventi a cascata responsabili di infiammazione, morte cellulare e rottura della BEE. Il suo progetto è sostenuto nel 2022 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

Joanna, come nasce l’idea del vostro lavoro?

«Durante i miei studi di dottorato ho valutato il potenziale neuro-protettivo del 3,3'-diindolilmetano (DIM), di origine vegetale in colture cellulari ippocampali sottoposte alla deprivazione di ossigeno, o ipossia. Il DIM ha mostrato una potente capacità neuroprotettiva, tramite il blocco della via di segnalazione del recettore degli idrocarburi arilici (AhR). Secondo alcuni dati recenti, bloccare l’azione di questo recettore potrebbe svolgere un ruolo chiave nella protezione del cervello dall'ipossia e quindi dall’ischemia».

Perché vi siete orientati su questa linea di ricerca?

«Durante le prime fasi dell'ictus ischemico (la forma provocata da un’improvvisa ostruzione di un’arteria cerebrale - N.d.R.), la barriera ematoencefalica (BEE) aumenta significativamente la permeabilità portando a edema (versamento N.d.R.) cerebrale, infiammazione e morte. Pertanto, individuare una terapia che possa riparare la disfunzione della BEE indotta da ictus sarebbe fondamentale per limitare il danno cerebrale. Le cellule endoteliali cerebrali, che formano i vasi sanguigni, sono uno dei componenti principali della BEE. Tuttavia, non ci sono dati sulla capacità protettiva e sui potenziali meccanismi d'azione del DIM sulle cellule endoteliali cerebrali soggette a ischemia».

Quali sono le domande scientifiche a cui vorreste rispondere?

«Ci chiediamo se questo composto vegetale, il DIM, possa proteggere le cellule endoteliali del cervello umano dall'ischemia e bloccare la cascata ischemica. Inoltre vorremmo approfondire il ruolo della via di segnalazione del recettore AhR nella protezione delle cellule endoteliali cerebrali contro l'ischemia. Infine vorremmo capire se l'inibizione della via di segnalazione di AhR da parte del DIM nelle cellule endoteliali possa costituire una strategia terapeutica nell'ictus».

Come condurrete il vostro lavoro durante quest’ anno?

«Il progetto è diviso in due parti. Nella prima parte verrà stabilito e studiato il modello in vitro di ischemia, impiegando linee cellulari endoteliali cerebrali. Nella seconda parte verrà valutata la capacità protettiva del DIM in vitro, simulando una condizione di ischemia, con particolare attenzione alla segnalazione di AhR e miR-212/132».

Quali potrebbero essere le future applicazioni dei vostri studi per la medicina e la salute umana?

«Se sarà dimostrato il ruolo di DIM nel proteggere le cellule endoteliali del cervello attraverso la via di segnalazione AhR, potrebbe esserci una svolta nella terapia dell'ictus. Avremmo infatti individuato nuovi potenziali bersagli terapeutici da colpire anche nelle fasi iniziali dell’evento ischemico. I risultati positivi ottenuti durante questo progetto possono contribuire all'introduzione del DIM negli studi clinici in pazienti affetti da ictus, o all'uso del DIM come integratore alimentare per soggetti a rischio».

Joanna, ci descrivi la tua giornata tipo in laboratorio?

«La mia giornata inizia con la lettura delle e-mail. Poi vado a controllare le cellule in coltura, osservandole al microscopio. Nel frattempo, inizio a programmare gli esperimenti o seguo i miei studenti, spiegando loro le tecniche che useremo. Se i tessuti o le cellule sono pronti per la sperimentazione, li tratto con composti diversi e li sottopongo a privazione di ossigeno e di glucosio. Dal materiale raccolto eseguo poi misure di tossicità cellulare, di espressione genica o dei livelli proteici. Nel tempo libero cerco di leggere anche gli ultimi articoli scientifici per tenermi aggiornata».

C’è qualche episodio buffo o curioso che ci vuoi raccontare?

«Gli episodi divertenti accadono quando non ci capiamo tra di noi, a causa della lingua. Non so ancora perfettamente l’italiano, quindi a volte sbaglio la pronuncia o invento parole che non esistono».

L’Italia non è un posto facile per gli scienziati. Come mai hai deciso di fare ricerca in Italia?

«Ho deciso di venire in Italia perché mio marito è italiano».

Quali sono i principali aspetti positivi di lavorare in Italia?

«Prima di tutto la possibilità di creare una rete scientifica composta da diversi specialisti: in Polonia è molto più difficile creare una collaborazione tra scienziati e clinici. Inoltre, lavorare all'Università di Milano mi ha dato l'opportunità di diventare co-relatrice delle tesi di laurea triennale e magistrale, un’attività che mi dà molte soddisfazioni. Dal punto di vista personale, l'Italia è uno dei paesi più belli al mondo, con il miglior cibo e con la popolazione più simpatica: la vita qui è piuttosto piacevole. Ho iniziato a vivere a Milano a gennaio 2020, quindi sono stata bloccata subito a causa del lockdown. È stato un inizio davvero difficile. Tuttavia, dopo due anni di permanenza in Italia, apprezzo molto il posto in cui mi trovo. Gli italiani sono stati molto più responsabili rispetto ad altre nazioni nel contesto pandemico».

E gli aspetti negativi?

«Un aspetto negativo legato alla scienza è la mancanza di contratti stabili per i ricercatori e la mancanza di denaro per la ricerca. La scarsità di contratti stabili non permette di diventare in breve tempo uno scienziato senior e di creare il proprio gruppo, un aspetto necessario per lo sviluppo personale. Un altro aspetto negativo è la burocrazia, che un po' complica la vita».

Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della ricerca?

«Penso che sia stato quando ho iniziato a lavorare presso l’Institute of Pharmacology of Polish Academy of Sciences e ho ottenuto il mio progetto di ricerca. Ho capito che fare ricerca ti dà la possibilità di scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo e che il tuo contributo potrebbe aiutare le persone che soffrono di gravi patologie, come l'ictus».

Quali sono le principali sfide e quali le soddisfazioni del tuo lavoro?

«La scienza è bella quando tutte le tue ipotesi scientifiche sono corrette e riesci a ottenere i risultati da pubblicare su riviste prestigiose: ovviamente questo dà soddisfazione. Dà soddisfazione anche ottenere finanziamenti o borse di studio, o quando si pubblica su riviste ad alto “impact factor”. Purtroppo non è detto che trascorrere molto tempo in laboratorio equivalga ad avere risultati sempre positivi. In questo caso bisogna essere pazienti e cercare di capire perché i risultati sono negativi o opposti rispetto all’atteso. Purtroppo anche gli stipendi di noi ricercatori sono molto bassi rispetto ad altri impieghi. Nonostante l'emergenza Covid-19 abbia dimostrato che senza gli scienziati è difficile andare avanti, nulla è cambiato nell'approccio ai loro stipendi».

Cosa rappresenta la scienza dal tuo punto di vista?

«Diverse cose. La scienza è uno strumento per comprendere i meccanismi delle malattie, i meccanismi di azione dei farmaci, individuare nuovi farmaci e bersagli terapeutici. In sintesi, è un’attività che può rendere la nostra vita migliore».

Scienza e società sono spesso in conflitto. Percepisci fiducia attorno alle figure dei ricercatori?

«Durante l'emergenza Covid-19 penso che sia aumentata la fiducia nei loro confronti. Anche se abbiamo ancora molto da fare per convincere le persone che la ricerca può salvare molte vite».

Secondo te, in che cosa la comunità scientifica può migliorare?

«Di sicuro dovrebbe cambiare il modo di valutare gli scienziati, attualmente basata principalmente sul numero di articoli pubblicati e le citazioni. Questo non è corretto, perché obbliga a pubblicare in poco tempo i risultati, soprattutto quelli positivi. Ritengo che anche i risultati negativi ottenuti durante uno studio possano contenere informazioni preziose, ma purtroppo sono più difficili da pubblicare».

Cosa può essere fatto per migliorare la comunicazione scientifica e in che modo i ricercatori possono contribuire?

«Gli scienziati dovrebbero prendere parte ad attività che coinvolgono il pubblico di non esperti, come accade durante la Notte Europea dei Ricercatori. Dovrebbero anche cercare di parlare al pubblico in un modo semplice, che permetta di far capire quanto la scienza sia importante».

Come ti vedi tra dieci anni? Qual è il traguardo che ti piacerebbe raggiungere?

«Vorrei diventare scienziata senior e creare la mia squadra di lavoro».

Cosa vorresti fare almeno una volta nella vita?

«Vorrei sottomettere la mia ricerca di base alle sperimentazioni cliniche».

Joanna, elencaci tre dei tuoi pregi e tre dei tuoi difetti.

«Tre qualità: sono laboriosa, puntuale e leale. Tre difetti: sono impaziente, disorganizzata e insicura».

Se non fossi una ricercatrice, oggi saresti?

«Una cantante».

Cosa ti piace fare nel tempo libero?

«Mi piace viaggiare, provare nuovi sapori della cucina locale, ascoltare musica classica e assistere all’opera».

Cosa vorresti dire a coloro che donano a favore della ricerca scientifica?

«Vorrei dire loro grazie. È molto importante supportare scienziati giovani e di talento, dando loro la possibilità di realizzare i propri progetti e sostenere la ricerca in generale».

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