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Chiara Miriam Maddalena
pubblicato il 10-06-2020

Il ruolo del microbiota intestinale nella malattia di Alzheimer



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Elena Zenaro studierà le interazioni tra neutrofili e microbiota intestinale per valutare come influiscano sulla progressione del morbo di Alzheimer

Il ruolo del microbiota intestinale nella malattia di Alzheimer

Il tratto gastrointestinale umano ospita un insieme di microrganismi complesso che prende il nome di microbiota: questa popolazione gioca un ruolo cruciale in numerosi processi metabolici, nella programmazione del sistema immunitario e nella protezione contro gli agenti patogeni, quali batteri e virus dannosi. La composizione microbica intestinale è fondamentale per garantire il corretto funzionamento del nostro organismo. In alcune malattie, però, questo equilibrio si rompe, ed è possibile che riscontrare una condizione definita disbiosi. Sebbene questo sia un dato ormai noto, non è ancora chiaro se la disbiosi rappresenti la causa di una malattia o un suo effetto secondario.

 

Studi recenti suggeriscono che la disbiosi e l’infiammazione sistemica siano correlate con lo sviluppo di disturbi cerebrali, quale, per esempio, la malattia di Alzheimer. Alcune cellule del sistema immunitario, i neutrofili, potrebbero essere responsabili di questo legame: è su questo che lavora Elena Zenaro, ricercatrice sostenuta da Fondazione Umberto Veronesi che lavora all’Università degli Studi di Verona.


Elena, raccontaci del tuo progetto.  Di cosa ti occuperai?

«Il mio progetto di ricerca si propone di studiare gli aspetti legati alla risposta immunitaria da parte dei neutrofili nella malattia di Alzheimer. Alcuni dati preliminari del nostro gruppo mostrano, durante il decorso della malattia, la presenza costante di un lieve stato infiammatorio e dell’attivazione dei neutrofili. Noi crediamo che tale condizione possa essere innescata da una disbiosi intestinale, e cercheremo di verificare la nostra ipotesi attraverso la studio della composizione della flora intestinale durante le diverse fasi della malattia».

 

In che modo i neutrofili promuoverebbero l’insorgenza dell’Alzheimer?

«In passato, usando un modello animale che simula la malattia, abbiamo dimostrato che, durante la malattia di Alzheimer, i neutrofili sono attivati e possono infiltrare, cioè raggiungere, il cervello. Tale condizione provoca un peggioramento delle capacità cognitive dell’animale, nonché l’accumulo a livello cerebrale di una proteina chiamata amiloide, caratteristica di questa malattia. Inoltre, pensiamo che i neutrofili regolino la risposta infiammatoria durante la progressione della malattia».

 

E che ruolo avrebbe, nello specifico, il microbiota?

«Abbiamo verificato che, fin dall’esordio dei deficit cognitivi, era evidente un disequilibrio microbico intestinale. Pertanto crediamo che lo stato di disbiosi possa influenzare, a livello sistemico, l’intero organismo, correlando l’avanzamento della malattia».

 

Cosa potremmo aspettarci, in futuro, dalla conoscenza dei meccanismi di interazione tra microbiota e neutrofili nella malattia di Alzheimer?

«L’approccio che caratterizza il nostro progetto si contrappone a una visione più classica dell’Alzheimer, che vede questa malattia come una disfunzione prettamente cerebrale. Al contrario, questa analisi nuova potrebbe evidenziare aspetti patogenetici comuni con il decorso di altre malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson o la sclerosi multipla, offrendo nuove opportunità terapeutiche per molteplici disturbi cerebrali».

 

Elena, raccontaci brevemente la tua giornata tipo in laboratorio.

«Nel mio lavoro non esiste una routine. La giornata in laboratorio inizia, generalmente, con la lettura della posta elettronica e con la preparazione del materiale e degli strumenti necessari per svolgere gli esperimenti. Durante il pomeriggio aggiorno il quaderno di laboratorio con i dettagli delle attività svolte, analizzo i dati raccolti e, attraverso lo studio della letteratura scientifica, mi tengo aggiornata sui progressi che vengono fatti nel mio settore di ricerca».

 

Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Sì, due volte. La prima volta, in Finlandia, durante il periodo della tesi di laurea magistrale. In seguito, sono stata in Svizzera, dove ho lavorato per circa due anni, prima a Zurigo e, successivamente, a Losanna».

 

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«È stata un’esperienza formativa sotto moltissimi aspetti. Ho imparato a cavarmela da sola, sia dal punto di vista personale che lavorativo. Inoltre, ho avuto l’importante opportunità di imparare molto bene l’inglese, lingua fondamentale per chi intraprende una carriera in campo scientifico. Ho vissuto in un ambiente internazionale con ricercatori provenienti da varie parti del mondo, con i quali ho avuto la fortuna di confrontarmi».

 

Ti è mancata l’Italia?

«Tremendamente. Ho capito che la mia strada era la ricerca, ma anche che avrei voluto intraprenderla nel mio Paese, in un contesto consono alla mia serenità, che mi consentisse di svolgere il lavoro che amo senza dover rinunciare ai miei affetti e alla voglia di crearmi una famiglia».

 

Raccontaci di più: quando hai capito di voler diventare ricercatrice?

«Frequentavo la scuola superiore e la figlia di un’amica di famiglia aveva appena iniziato a l’università presso la facoltà di biotecnologie. Mi ricordo che, un pomeriggio, mi raccontò cosa studiava e gli esperimenti che avevano svolto in laboratorio. Fu così affascinante nel suo racconto e stimolò talmente tanto la mia curiosità verso quel mondo, allora sconosciuto, che da quel momento ho pensato di voler fare la stessa cosa da grande».

 

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare.

«Il giorno in cui ho appreso di essere riuscita, dopo numerosi sacrifici, a pubblicare i risultati del mio lavoro sull’importante rivista scientifica Nature Medicine».

 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Studiare, imparare, conoscere cose nuove. Poter contribuire, nel mio piccolo, a mettere un tassello nel complesso puzzle della biologia. Spero di riuscire, un giorno, nel mio intento di trovare una cura per le malattie neurodegenerative, così diffuse e devastanti per tantissime persone».

 

Una figura che ti ha ispirata nella tua vita professionale.

«Ci sono stati alcuni professori, durante il mio percorso di studi, che mi hanno piacevolmente ispirata e spronata ad andare avanti».

 

In cosa, secondo te, potrebbe migliorare la comunità scientifica?

«Bisognerebbe creare maggiori occasioni di collaborazione tra le diverse discipline scientifiche, così da poter unire e sfruttare in maniera proficua le differenti competenze dei ricercatori».

 

In che modo e da chi, invece, potrebbe essere aiutato il lavoro di chi fa scienza?

«La politica dovrebbe tornare a investire nella ricerca. Infatti, oggi, i fondi sono sempre più scarsi e molte menti brillanti sono fuggite all’estero (e con loro anche competenze e progetti, ndr) o hanno dovuto, loro malgrado, cambiare mestiere».

 

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Assolutamente sì. A mio avviso, il ricercatore, in Italia, è percepito come colui che gioca a fare esperimenti in laboratorio. Trovo che anche la politica non abbia molta fiducia nella ricerca, visti i numerosi tagli economici alle università e la scarsità di risorse a nostro favore. Durante la mia esperienza in Svizzera, mi sono resa conto di quanto fosse gratificante lavorare in un Paese dove il ricercatore viene considerato una figura importante e degna di rispetto».


Elena, raccontaci di te. Hai famiglia?

«Sì, ho un compagno e due figlie. Ho avuto la prima figlia a quasi quarant’anni perché speravo di riuscire, prima, a stabilizzare la mia situazione lavorativa. Quando ho realizzato che probabilmente non sarebbe mai successo, ho deciso di crearmi una famiglia. Ed è stata la scelta più bella che potessi fare e mi pento di averla posticipata, nell’attesa di qualcosa che forse non arriverà mai».

 

Cosa fai nel tempo libero?

«Con due bambine piccole, fatico a ritagliarmi del tempo libero. Infatti, molto spesso, devo lavorare anche di sera o nel fine settimana in quanto mi occupo, inoltre, della revisione di articoli scientifici per conto di alcune riviste e della stesura dei miei progetti di laboratorio per la richiesta di finanziamenti».

 

Se un giorno tua figlia ti dicesse che vuole fare il ricercatore, cosa le diresti?

«Sinceramente, le consiglierei di fare altro. Se avessi saputo delle difficoltà nel mondo della ricerca, forse non avrei intrapreso questa strada. Mi sono fatta guidare dalla passione, la quale, tuttavia, non garantisce uno stipendio a fine mese. Nonostante queste difficoltà oggettive, qualora mia figlia mostrasse questo desiderio, coraggio e forza di volontà così come li avuti io, la supporterei in ogni decisione».

 

Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?

«Pochi giorni fa, quando ho visto mia madre in fin di vita a causa del Covid-19».

 

C'è una pazzia che hai fatto che hai voglia di raccontarci?

«Lanciarmi con il paracadute, un’esperienza adrenalinica e spettacolare».

 

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Li ringrazio perché il loro aiuto è fondamentale, in quanto permette a tanti ricercatori di portare avanti il proprio lavoro, frutto di anni di studi e sacrifici. Specialmente per i giovani che si stanno affacciando al mondo della ricerca, queste donazioni rappresentano una linfa vitale. Sono convinta che chi sceglie di donare a favore della ricerca stia facendo un investimento concreto sul futuro».

 


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