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Oncologia
Donatella Barus
pubblicato il 25-08-2021

Conflitto, salute e prevenzione: il prezzo che pagano le donne di Herat



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Il Centro per la diagnosi del tumore al seno di Herat ha assistito 9.300 donne in otto anni. Ora è chiuso. La storia e il significato di un progetto fortemente voluto da Umberto Veronesi

Conflitto, salute e prevenzione: il prezzo che pagano le donne di Herat

«E adesso? Chi si occuperà di loro?». Va alle sue pazienti rimaste in Afghanistan il pensiero di Bibi (nome di fantasia), la ginecologa che coordinava il Centro Fondazione Umberto Veronesi per la diagnosi del tumore al seno di Herat. Un ambulatorio aperto nel 2013 dopo un intenso lavoro, fortemente voluto da Umberto Veronesi («Per avere la pace, dobbiamo preparare la pace. Non bisogna più investire in armi, bisogna investire in ricerca e salute, le sole in grado di creare il nuovo mondo che tutti vogliamo»). Con altre 7 colleghe (fra cui anche tecniche radiologhe e di laboratorio, data manager e receptionist del centro), strette alle loro famiglie, Bibi è arrivata in Italia grazie all’aiuto del Governo, nelle drammatiche operazioni di evacuazione da un paese nel caos. Donne, operatrici sanitarie, impegnate a fianco della cooperazione occidentale, per loro la strada più sicura davanti all’avanzare dei Talebani è stata, purtroppo, quella che porta lontano dalle loro case.

LA VITA DEL CENTRO 

Così, l’ambulatorio è stato chiuso. Sono stati lasciati i locali dove si radunavano le pazienti in attesa, spesso con i loro bambini al seguito, dove si eseguivano visite, ecografie e mammografie, dove si esaminavano vetrini e si formulavano prime ipotesi di diagnosi (poi confermate in Italia); lasciate le attrezzature ottenute e trasportate ad Herat grazie al contributo di Fondazione BNL e dell'Aeronautica italiana. In otto anni di attività, nel centro sono passate oltre novemila donne, anche grazie al lavoro attento di informazione e di educazione alla prevenzione portato avanti da Bibi e dalle colleghe.

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LA SALUTE DELLA DONNA IN AFGHANISTAN

L’Afghanistan è un Paese dove i casi di tumore sono difficili anche da contare. Non esistono registri nazionali, le diagnosi arrivano in modo sporadico e quasi sempre tardivo, una fetta prevalente di popolazione non accede ad ambulatori e a ospedali, non ha informazioni sui sintomi. Gli screening sono un miraggio, per una popolazione che è cresciuta del 65 per cento negli ultimi tre decenni (oggi circa 38 milioni di abitanti), con una aspettativa di vita alla nascita di 65 anni (nel 1990 era di 49 anni). L’alfabetizzazione femminile è fra le più basse al mondo, fra le donne adulte non supera il 20 per cento. Nel 2016 la Banca Mondiale contava 2,7 medici e 5 posti letto in ospedale ogni 10.000 cittadini afghani.

PREVENZIONE AL FEMMINILE

E la prevenzione oncologica? Tutta da fare, in un Paese in cui ci si ammala, si muore e si resta invalidi ancora più per malattie infettive o per ferite rispetto a malattie cardiovascolari, tumori o diabete. Niente linee guida, niente campagne e poca consapevolezza. L’occupazione femminile è risicata e il numero di lavoratrici nel comparto sanitario è ridotto al lumicino; negli anni recenti, però, il servizio sanitario pubblico aveva promosso la diffusione di infermiere e ostetriche di comunità, migliorando l’accesso femminile ai servizi sanitari di base, anche se in ampie aree del paese per una donna resta impossibile farsi visitare da un professionista, in molti casi non è ammissibile farsi visitare da un uomo. Questo per dare un’idea del valore del lavoro di otto donne al servizio della salute di altre donne.

IMPEGNO E FORMAZIONE

«Nel 2013 iniziammo con un solo ecografo. Poi fortunatamente arrivò un mammografo, e poi la sezione di citologia» racconta Bibi. «Il numero delle donne che si presentavano al centro cresceva, giorno dopo giorno». Novemila donne visitate e assistite, in un Paese che conta (con tutti i limiti di questi dati, OMS 2020) circa tremila nuove diagnosi di tumore al seno e 2.300 vittime l’anno. Negli anni, il personale del centro ha seguito corsi di formazione e aggiornamento per conoscere ed utilizzare al meglio le attrezzature, per acquisire competenze ed esperienze da medici, radiologi e patologi (con l'aiuto di APOF, l'Associazione Patologi oltre Frontiera) che lavorano nel nostro paese, avvezzi a numeri, volumi e risorse ben diversi da quelli afghani.

DISUGUAGLIANZE SEMPRE PIÙ PROFONDE

Non sappiamo cosa accadrà ad Herat. Abbiamo ben presente, però, che di fronte al tumore al seno le donne nel mondo non hanno le stesse opportunità. Nei paesi poveri si conta il 25 per cento dei casi ma si piange il 38 per cento delle vittime, la mortalità è fino a quattro volte più alta. Ancora troppe donne pagano il prezzo di discriminazione, povertà, violenza e non accedono a tutto ciò che a casa nostra ha permesso di migliorare la speranza di vita, come la diagnosi precoce, gli screening, le cure efficaci. «Ci sono luoghi del mondo dove prendersi cura della propria salute non è ancora possibile» spiegava Paolo Veronesi, presidente della Fondazione Umberto Veronesi, a proposito del progetto di Herat e degli altri progetti internazionali avviati. «Paesi falcidiati dalle guerre e dalle lotte intestine, dove si rischia la vita ogni giorno. Parlare di prevenzione in queste terre può sembrare anacronistico. Tutti noi però possiamo fare qualcosa. Questo progetto, nato grazie ad un'intuizione di mio padre e portato avanti con entusiasmo da Fondazione Veronesi, si prefiggeva proprio questo. Una scienza al servizio della pace. Capace, con piccoli gesti quotidiani, di cambiare la realtà in questi paesi martoriati».

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Donatella Barus

Giornalista professionista, dirige dal 2014 il Magazine della Fondazione Umberto Veronesi. E’ laureata in Scienze della Comunicazione, ha un Master in comunicazione. Dal 2003 al 2010 ha lavorato alla realizzazione e redazione di Sportello cancro (Corriere della Sera e Fondazione Veronesi). Ha scritto insieme a Roberto Boffi il manuale “Spegnila!” (BUR Rizzoli), dedicato a chi vuole smettere di fumare.


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