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Pietà per i malati di Ebola

Sono coscienti? E chi li conforta? A fronte di questa spaventosa epidemia abbiamo il dovere di arginare il contagio, senza dimenticare l'umana compassione

Pietà per i malati di Ebola

In più di un reportage si sono descritte le eccezionali misure di protezione adottate negli ospedali per far fronte ad eventuali casi di Ebola. I medici e gli infermieri con tute e caschi protettivi da astronauti, le camere attrezzate a pressione d’aria negativa, le barelle blindate per trasportare i malati nei reparti d’isolamento. Un’organizzazione giusta e sacrosanta per tentare di curare i pazienti senza offrire spiragli a un contagio praticamente mortale.

Nessuno però ha parlato dei malati. Nessuno, nemmeno chi li ha visti, ci ha detto se erano coscienti, se soffrivano e se si prendevano misure per non farli soffrire, se sussisteva la possibilità di confortarli, e se questa possibilità  è stata esplorata.

Un uomo che probabilmente muore scambia forse per fantasmi della sua agonia i coraggiosi incappucciati che sono lì a tentare di salvarlo, e il pensiero va inevitabilmente alla morte di don Rodrigo nella peste di Milano, con il respiro affannato, il volto cosparso di macchie, la bocca enfiata, le dita con le punte nere. E purtroppo Ebola presenta un quadro clinico anche peggiore di quello della peste, con un grado di sofferenza che non conosciamo e non possiamo nemmeno immaginare. E’ pietà sperare  che un malato di Ebola sia già affondato nel buio dell’incoscienza che precede la fine, ma nemmeno questo possiamo saperlo.

Possiamo però chiederci se qualcosa è stato previsto per spiegargli perché intorno a lui non ci sono presenze umane riconoscibili come tali, e se è stato pensato di tentare di comunicargli un briciolo d’incoraggiamento e di speranza. Come uomini dell’era moderna, non abbiamo più nessuna dimestichezza con flagelli infettivi come questo che sta desolando una parte dell’Africa e inquietando il mondo intero. Ma abbiamo il dovere di aggiornarci in fretta. In questa spaventosa epidemia il primo pensiero dev’essere certamente quello di arginare il contagio e proteggere i coraggiosi che la combattono a rischio della vita, ma non possiamo dimenticare il terrore dell’uomo che soffre e muore, lontano da tutto ciò che era la sua vita.

Umberto Veronesi



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