All’inizio sembrava solo un’afta presente sulla lingua, una di quelle che bruciano per qualche giorno e poi spariscono. Nell’estate del 2024 avevo persino fatto una biopsia, risultata negativa. Mi avevano parlato di una semplice infiammazione, nulla di preoccupante.
Eppure quella lesione continuava a restare lì e così, a gennaio dell’anno successivo, ho deciso di farmi rivedere, più per scrupolo che per reale timore. Quando mi hanno rifatto la biopsia, è arrivata la diagnosi: carcinoma squamoso della lingua. È stato un colpo tremendo, devastante e inaspettato. Non mi capacitavo del perché fosse successo a me. Non avevo nessun fattore di rischio: non fumavo, non bevevo, nessuna familiarità, HPV negativo. Vivevo in modo sano, facevo sport, curavo la mia alimentazione. E, soprattutto, avevo solo ventinove anni.
L’OPERAZIONE DURATA 7 ORE
La notizia mi ha tolto la terra sotto i piedi. E poi, essendo infermiera, sapere “troppo” non mi ha aiutata. Conoscevo ogni dettaglio della malattia, ogni possibile evoluzione, e questo mi faceva ancora più paura.
Dopo la diagnosi, ho iniziato tutti gli accertamenti e poi è arrivato il momento dell’intervento. Il mio timore più grande era non riuscire più a farmi capire dagli altri e a mangiare come prima, di gusto, come ho sempre fatto. Sapevo quello a cui andavo incontro, ma l’operazione per rimuovere il tumore era necessaria. È stata eseguita all’ospedale dell’Angelo di Mestre dal dottor Doriano Politi, direttore di Otorinolaringoiatria di Mestre e Venezia, dal primario di Chirurgia plastica, Eugenio Fraccalanza, e dalle loro equipe. Mi hanno tolto la parte destra della lingua, dove c’era il tumore, e l’hanno ricostruita con un lembo di pelle prelevato dal mio avambraccio, insieme ad arteria, vena e un nervo per mantenere la sensibilità sia tattile sia al caldo e al freddo. È stato un intervento lungo, durato più di sette ore. Quando mi sono risvegliata, sapevo che da lì sarebbe iniziato il percorso più duro.
UNA NUOVA LINGUA A CUI ABITUARSI
I primi giorni non riuscivo a parlare né a mangiare. Avevo la tracheostomia — un’apertura chirurgica nella trachea che permette di respirare quando la bocca e la lingua non possono funzionare normalmente — e il sondino per l’alimentazione. Nonostante tutto, quando dopo pochi giorni ho provato a dire qualche parola e ho visto che le persone capivano cosa volevo comunicare, ho provato speranza per il mio recupero.
Ho dovuto abituarmi alla nuova lingua, per metà mia e per metà ricostruita. All’inizio era molto difficile, sentivo un corpo estraneo in bocca. Di fatto, la lingua nuova da sola non si muoverebbe, ma viene “trainata” dalla parte rimasta. Per esempio, la erre moscia che ho è dovuta proprio a questo: non riesco a pronunciarla in modo pulito perché la parte ricostruita è più rigida, meno mobile, e non riesce a vibrare.
IMPARARE DI NUOVO A MANGIARE
Abbandonato il sondino dopo pochi giorni, mi hanno fatto provare frullati, acqua, e pian piano ho iniziato a mangiare cibi morbidi, come quelli dei bambini appena svezzati. Con la logopedista ho lavorato tantissimo, sia per parlare sia per deglutire. Poco alla volta ho ripreso a mangiare anche qualcosa di più solido, anche se non riuscivo a fare bocconi grandi.
Per me, che ho sempre amato il cibo, è stata una delle prove più difficili. Ricordo che non sentivo più i gusti — nemmeno il cioccolato o il caffè. È stato frustrante, perché non sapevo se quella sensazione sarebbe tornata.
NUOVE CURE E NUOVE DIFFICOLTÀ
Dopo alcuni miglioramenti, ho dovuto sottopormi a trenta sedute di radioterapia e tre di chemioterapia, eseguite sempre nell'ospedale di Mestre. Avevo la bocca piena di ulcere, non riuscivo quasi a bere e mangiare, e mi sembrava di tornare indietro. Inoltre, con la radioterapia dovevo indossare una fastidiosissima maschera rigida, che mi copriva fino alle spalle, per tenermi immobile. A maggio, finite le cure, piano piano mi sono ripresa.
Oggi non ho più molta saliva, quindi devo evitare i cibi secchi e aiutarmi sempre con l’acqua o con salse, creme e condimenti vari. I cibi duri, invece, mi irritano le mucose, quindi li mangio di rado, ma va sempre meglio.
UNA DECISIONE DIFFICILE PER TUTELARE IL FUTURO
Prima di iniziare le cure mi hanno proposto di congelare gli ovuli. È successo tutto velocemente e ho dovuto prendere una decisione importante, senza tempo per pensarci. In due settimane ho fatto la stimolazione ormonale, poi la raccolta degli ovuli. È stato un periodo intenso: da un lato volevo solo iniziare le cure, dall’altro avevo paura di non riuscire a ottenere abbastanza ovuli. Ad ogni modo so di aver fatto il possibile per il mio futuro.
CICATRICI DA ACCETTARE, DENTRO E FUORI
Fisicamente le cicatrici ci sono, e resteranno. Oltre alle due sul collo – quella della tracheostomia e quella lasciata dalla rimozione dei linfonodi – porto quelle sul braccio, molto evidenti: una lunga e lineare che percorre tutto l’avambraccio e un’altra, vicino al polso, di forma ovoidale. Le cicatrici sono ancora molto visibili e di un colore diverso rispetto alla mia pelle. Per chiudere la parte ovale, infatti, hanno dovuto prelevare un innesto dall’inguine, dove anche lì è rimasta una cicatrice lineare. Non so come cambieranno nel tempo: spero che si attenuino, ma onestamente non so quanto sarà possibile.
All’inizio è stato difficile accettare le mie cicatrici, esteriori e interiori. Avevo tanta rabbia, perché non trovavo un senso a quello che mi era successo. Poi, con il tempo, mi sono riscoperta e ho capito di essere molto più forte di quanto pensassi. Il mio unico obiettivo era arrivare in fondo alle cure con determinazione e positività.
UN VIAGGIO INASPETTATO
Per me, questo percorso è stato come un viaggio. Un viaggio non scelto, totalmente inaspettato, per il quale non ho avuto il tempo di preparare le valigie. Un’esperienza simile ti travolge, non ti lascia il tempo di capire. Ci sono giorni sereni e giorni di tempesta. La mia positività e caparbietà, l’aiuto di logopedia e fisioterapia, e il sostegno delle persone che amo, sono stati fondamentali. Anche solo un messaggio o una parola gentile fanno la differenza nei momenti più bui. Ho ricevuto tanto affetto anche dai medici che mi hanno seguita e da tutto il personale sanitario che mi ha accompagnata in questo percorso. Mi sono sentita vista, ascoltata, trattata non solo come una paziente, ma come una persona.
UNA NUOVA SARA
Una cosa è certa, da questo viaggio non si torna mai come si è partiti. Io ho sempre fatto fatica a chiedere aiuto, ma ho dovuto imparare a farlo. Per la prima volta mi sono trovata dall’altro lato, non più infermiera ma paziente, pronta ad affidarmi. Senza la mia famiglia, il mio compagno e gli amici, sarebbe stato tutto più difficile.
Sto continuando un percorso di psicoterapia, iniziato dopo la diagnosi, per conoscermi meglio e costruire una nuova me, magari diversa, forse migliore. Ho imparato a dare importanza solo a ciò che conta davvero, a non sprecare energie per cose inutili. Sono anche diventata più diretta, più schietta.
Oggi racconto la mia storia per provare a dare quello che a me è mancato: un confronto, un appoggio, la voce di qualcuno che questa esperienza l’abbia vissuta davvero sulla sua pelle. Vorrei che le mie parole potessero aiutare qualcuno a sentirsi meno solo e smarrito.


